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scheda di Bongiovanni, C., L'Indice 1996, n.11
William Beckford, erede di un'immensa fortuna e figlio del Lord Mayor di Londra, trascorse la prima parte della sua vita in viaggi ed eccessi d'ogni genere, per poi dilapidare i resti della sua colossale ricchezza nella costruzione dell'abbazia di Fonthill, forse il più celebre tra i monumenti sorti dal revival gotico dell'Inghilterra di fine Settecento. Più durevole dell'abbazia che, innalzata rapidamente su fondamenta insufficienti, crollò senza lasciare traccia nel giro di qualche decennio, è l'altra principale opera della vita di Beckford, il "Vathek", racconto arabo scritto e pubblicato in francese nel 1786, singolare commistione tra lo stile delle "Mille e una notte" tradotte in francese da Galland, l'umorismo beffardo dei "Contes philosophiques" di Voltaire e i romanzi neri del preromanticismo inglese. Il califfo Vathek, definito da Francesco Orlando nella sua densa e illuminante introduzione come un modello di 'enfant gƒté', è spinto a ogni sorta di efferatezze dall'insaziabile sete di conoscenza e di potere, ma alla fine del suo sanguinario percorso vede dischiudersi dinnanzi a lui non la ricchezza e l'onnipotenza sperate, bensì l'immensa atrocità dell'inferno. "Vathek" è un testo cesellato virtuosisticamente, una sorta di morbosa e sensuale parabola che nel corso degli anni, grazie all'alta qualità di scrittura, ottimamente resa nella bella traduzione italiana di Giovanni Paoletti, e alla molteplicità dei riferimenti letterari, ha affascinato lettori e critici del rango di Mallarmé, Breton e Borges, che ha definito l'inferno in cui il califfo vagherà eternamente, con il cuore arso da una fiamma anch'essa, come lui, insaziabile, "il primo inferno realmente atroce della letteratura".
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