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"E' bastata, o quasi, in un giorno di maggio in cui faceva troppo caldo, l'inopportuna congiunzione tra un testo di cui avevi perso il filo, una tazza di Nescafè dall'improvviso gusto troppo amaro, e una bacinella di plastica rosa piena di acqua nerastra al cui interno galleggiavano sei calzini, perché qualcosa si rompesse, si alterasse, si disfacesse". Una descrizione di battaglia in cui tutto tace e l'uomo, dopo un momento di illuminazione, si rifiuta di combattere. Meraviglioso. Dedicato anche ai pigri e alle persone inconcludenti.
Uno studente depresso descrive tutto ciò che vede a Parigi, senza soffermarsi su nulla.
Un inno all'inazione drammaticamente contraddittorio. Smettere di decidere si rivela la decisione più rilevante per il protagonista. Nel finale l'atarassia che sembrava essere ad un passo sembra condizione irragiungibile. Ci vuole molta arte a raccontare fin nei minimi dettagli cosa fa un uomo che decide di abdicare alla sua vita. Ci vogliono tutte le parole che servono, quelle precise: non una di meno, non una di più. Grandissimo libro.
Recensioni
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Nel dicembre del 1965, il ventinovenne Georges Perec, che con Les Choses ha appena vinto il premio Renaudot ("senza cravatta e senza emozione", nota "Le Figaro"), è lo scrittore del momento. Il suo primo romanzo, recepito come una sorta di manifesto contro l'ossessione consumista, gli conferisce un'aura inattesa di visibilità mediatica. Perec ha un bel precisare che la crociata contro il consumismo gli è del tutto estranea ("Se volete qualcuno che faccia del moralismo su questi temi, leggetevi Les belles images di Simone de Beauvoir", commenterà spazientito nel '67); i giornali fanno a gara per presentarlo come un acuto sociologo che ha usato il romanzo per denunciare il vuoto di valori della nascente società opulenta. In realtà l'argomento di Les Choses, senza che l'autore se lo proponesse, era quello stesso "desiderio mediato" di cui aveva parlato, nel 1961, René Girard: gli eroi del primo romanzo di Perec sono incapaci di desiderare un oggetto il cui prestigio non sia sanzionato da un mediatore, vale a dire da qualche invidiabile rappresentante delle classi privilegiate o da una rivista di moda. Tutti si chiedono, comunque, alla fine del '65, a che cosa lavori Georges Perec, e lui annuncia Un homme qui dort, precisando che il titolo viene da Proust ("Un uomo che dorme tiene in cerchio intorno a sé il filo delle ore, l'ordine degli anni e dei mondi") e che, rispetto a Les Choses, il suo nuovo romanzo"si situa su un altro piano". "Descrive spiega in un'intervista la faccia oscura della realtà, di cui Les Choses mostravano unicamente la faccia brillante. L'argomento non è più la fascinazione (
) Mi rivolgo piuttosto verso parole come 'indifferenza', 'solitudine', 'rifiuto', 'abbandono'. E, paradossalmente, mentre in Les Choses i singoli elementi erano autobiografici, senza che lo fosse l'insieme del libro, qui io tento di ritrovare, a partire da elementi che non sono autobiografici, o lo sono molto poco, certi anni della mia vita".
Gli anni che Perec "tentava di ritrovare" in Un homme qui dort erano il 1956 e il 1957: il periodo dei suoi studi di storia alla Sorbona, mai portati a termine, e del trasloco dalla casa degli zii che lo avevano allevato a una mansarda di rue Saint-Honoré. "Ritrovare" quegli anni significava, per lui, risalire a una fase della propria vita anteriore a quella euforica per quanto alla fine deludente descritta in Les Choses; rievocare l'esperienza di una condizione di straniamento da tutto, di sonnambulismo, di programmata indifferenza autodistruttiva che lo aveva portato sull'orlo del suicidio. Nulla, però, gli era più estraneo dei modi della confessione immediata, dell'effusione patetica, dell'esplorazione introspettiva: da un lato, sulle ferite del suo io, legate alla scomparsa della madre nella Shoah, incombeva un fortissimo "divieto d'immagine"; dall'altro, la sua ricerca e la sua riflessione estetica privilegiavano una forma di narrazione indiretta, filtrata attraverso un ambiguo omaggio parodico ai maestri del Grande Romanzo del passato. Rivisitata e imitata in Les Choses, la scrittura di Flaubert era diventata lo specchio magico in cui personaggi e lettori del XX secolo decifravano i propri desideri; in Un homme qui dort un ruolo analogo sarà svolto dai mondi immaginari di Kafka e di Melville, convocati per raccontare il naufragio di una creatura disarmata e solitaria, uno studente senza nome, in una Parigi ostile che i suoi incubi popolano di spettri e di mostri.
"Non voler più niente. Aspettare finché non ci sia più nulla da aspettare. Vagare, dormire. Lasciarsi portare dalla folla, dalle vie. Seguire i canaletti di scolo, le inferriate, l'acqua lungo le sponde. Camminare lungo il fiume, rasente ai muri. Perdere tempo. Tenersi lontano da ogni progetto, da ogni smania. Essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione". La bella traduzione di Jean Talion rende con precisione la forza ipnotica del dettato perecchiano, che in Un homme qui dort risucchia il lettore in una discesa agli inferi dalle tappe quotidiane e insignificanti: botteghe fantasma, ristoranti anonimi, divanetti in finta pelle nella hall di piccoli hotel malandati. Apostrofato dall'autore con un "tu" martellante (sulle orme di Butor, il romanzo è scritto alla seconda persona), il protagonista sprofonda in un vortice di passività, si inebria di illusoria indipendenza dal mondo, si ridesta all'improvviso un giorno in cui "tutto ricomincia, tutto continua". Nell'epilogo, lo vediamo nuovamente capace di aspettare qualche cosa: la fine della pioggia in Place Clichy. È un caso che proprio in place Clichy cominciasse un'altra discesa agli inferi, quella del Voyage céliniano? I perecchiani se lo chiedono, ma, come sempre, hanno più domande che risposte sicure.
Mariolina Bertini
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