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L' ultimo minuto - Marcelo Backes - copertina
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ultimo minuto

Descrizione


Incarcerato per un crimine che verrà rivelato solo alla fine dell'ultimo minuto, nella sua cella solitaria, Joào decide di raccontare la storia della propria vita a un seminarista. Ex allenatore di calcio, convive con il senso di colpa per aver abbandonato il figlio e non essere riuscito ad amarlo, data la sua assoluta mancanza di talento come giocatore. Per riparare alle sue mancanze, decide di inserirlo nella formazione, eliminando un talentuoso centravanti. Ma nel match decisivo compie finalmente una scelta più corretta... prima che scorra il sangue. Nel tentativo di riaprire la trattativa con il proprio passato, Joào il Rosso, nato Yannick, brasiliano di origine russo-tedesca, alterna passato e presente e si immerge nelle riflessioni, eludendo di continuo la questione centrale e sviluppando lunghi discorsi sul calcio che considera il "vero teatro dell'esistenza", filtro per la sua visione del mondo. Attraverso il monologo "virulento" di un uomo disperato, Marcelo Backes conduce il lettore all'interno di Rio Grande do Sul, con le famiglie di stampo patriarcale che apprezzano l'onore e il duro lavoro, poi lo accompagna in una Svizzera ipercivilizzata e poi a Rio de Janeiro. Il monologo interiore, nella sua "classica" funzione di introspezione psicologica, si fa qui strumento affilato per evidenziare le contraddizioni di una modernità che non tocca l'animo.
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Dettagli

2014
11 giugno 2014
262 p., Brossura
9788861101036

Voce della critica

  Non mi sono ancora ripreso. Parlo del Mondiale e della sconfitta del Brasile, del mio Brasile, con la Germania: 7-1, sette a uno. La più grande umiliazione subita dalla Seleção in un secolo di vita. Mi sembrava, guardando la partita in tv, di essere dentro un racconto surreale sul futebol di Osvaldo Soriano. Invece era tutto vero. Per noi tifosi verdeoro non restavano che le lacrime e i rimpianti. Mi sono consolato con uno dei più bei romanzi con il calcio protagonista: è Ultimo minuto del brasiliano Marcelo Backes, traduttore dei migliori classici della letteratura tedesca. Un allenatore di 55 anni, ex centromediano, con un figlio centravanti e un rivale in amore attaccante di riserva, Yannick Nasnyniack, detto João il Rosso, papà russo e mamma tedesca, confessa in carcere, a un seminarista, il motivo di un delitto (che scopriremo solo nelle ultime pagine, decisamente in zona Cesarini). È un giallo psicologico, dove dominano il tormento di una generazione e il football inteso come "il vero teatro dell'esistenza". Backes recupera le grandi lezioni di Handke, Pasolini e Montalbán e porta l'essenza del pallone al centro della narrazione. João, ricordando i suoi viaggi tra il Rio Grande do Sul, la Svizzera e Rio de Janeiro, riflette sulla vita, sulla passione amorosa e sul calcio, sui suoi incubi e sui suoi tormenti, sulle cose che potevano essere e non sono state. E lo sport più popolare e amato diventa sfogo, metafora, miseria e nobiltà; personaggi grandi e piccoli assumono la connotazione di modelli di riferimento: di vizi o di virtù, esempi da seguire o da allontanare. Prendiamo l'ex laziale e juventino Pavel Nedvêd: "Diceva di aver parlato di Nedvêd, un leone anche d'aspetto, allora sulla ribalta, poi pallone d'oro, prima della fatidica decisione, chiedendo se lo avessero mai visto giocare. Avevano mentito tutti, alzando la mano. Nel dubbio, aveva imposto un video di tre ore ai ragazzi scalpitanti, mostrando loro come quel giocatore fosse in grado di unire tecnica, coraggio e movimento, di calciare da lontano con entrambi i piedi, di passare il pallone con eleganza, fare gli assist con eleganza, un giocatore completo, solo di testa il ceco non era un granché, cosa che fra l'altro era il primo ad ammettere". João, nel suo monologo disperato, nella sua ricerca di perché e ragioni, rivisitata molte edizioni della Coppa del Mondo, arrivando fino a quella attuale, con un riferimento a Neymar: "quel passero col ciuffo, mi sembrava più simile a un passero che a un riccio, così trendy, in mezzo ai fossili più grandi, pieni di scheletri negli armadi, del potere legislativo". Ed ecco la spietata critica al football moderno, che è anche un'analisi di un vuoto generale: "Il calcio, come il mondo, era davvero perduto, continuava a insistere lui. Quello che vedeva là fuori, intorno a sé, erano professionisti senza più passione, calcolatori senza amore, mercenari da pochi spiccioli. Uomini che affrontavano la vita come fosse un hotel, che non piantavano più le loro bandiere, cavallette delle opportunità. E questo praticamente fin da pulcini, come aveva potuto verificare sulla propria pelle con gli juniores che gli erano passati fra le mani. Che fine hanno fatto gli scarpini tutti strappati, l'erba sradicata, il sangue sulle magliette? Oggi quelle macchie nemmeno si sarebbero viste, tanto le magliette sono zeppe di pubblicità, dalle banche ai deodoranti dai negozietti all'angolo al cibo per cani. Perfino all'altezza delle cosiddette ascelle, brutta cosa, lo spazio del sudore è ormai occupato da una scritta. Ai tempi in cui lui giocava ancora, non era così, no davvero, però questo di sicuro lo sapevo anch'io. C'erano amore, dedizione, ci si tuffava in profondità, ben oltre il mero fatto commerciale. Giocare per lo zero a zero, per esempio, era assurdo. Non esisteva. Pareggiare era soltanto una maniera più codarda di perdere". Backes-João fa scendere in campo, nel suo campo, diversi campioni, mezzi campioni, memorabili schiappe. Ecco Guardiola, Bora Milutinovic, Dunga, Romario, Schweinsteiger, Gary Lineker, Cristiano Ronaldo, Roberto Dinamite, Felipe Melo, Zidane, Materazzi sino a Jardel "che aveva detto che la naftalina, al culmine della partita, gli saliva a mille". Ma l'autore non colpisce impietosamente soltanto Jardel "ignorante". Arriva "fino alla Germania più colta di un Andrés Möller il quale, in procinto di cambiare squadra per una somma assai significativa, aveva dichiarato che, fosse Milano o Madrid, era lo stesso, a patto di giocare in Italia". Il Rosso ne ha per tutti, anche per gli azzurri che vincono a Berlino la Coppa nel 2006, superando soltanto su rigore, un rigore contestato, l'Australia agli ottavi di finale: "E giurava che gli aborigeni giocassero meglio, e che avessero umiliato gli assassini del calcio-arte. Gli italiani fra l'altro avevano un giocatore in meno, ma grazie allo zampino dell'arbitro avevano vinto, per poi diventare i campioni più insulsi del mondo". Nemmeno i connazionali vengono salvati: "Perché mai il Brasile era ancora campione mondiale di calci di rigore rubati, giocatori che si buttavano in area senza che nessuno li avesse neppure sfiorati?". Questo è, senza ombra di dubbio, almeno per quanto mi riguarda, il romanzo più vero, crudele, sofferto dentro le contraddizioni, le meraviglie e la polvere del dio pallone: "Il calcio era l'esperanto popolare, il linguaggio universale in cui le persone potevano plaudire al prezzo del biglietto d'ingresso, e poi assistere, per di più, a un concerto del quale inusitatamente comprendevano ogni singola nota. Sì, il calcio era l'unico luogo in cui perfino al più maschio fra gli uomini era permesso di farsi vedere isterico, secondo lui, una delle poche occasioni in grado di mostrare fedelmente un bel pezzo di universo". Perché "una bella partita continuava a essere un'imitazione del mondo". E non solo: "Proprio come nella vita, nel calcio si correvano rischi, era necessario osare, mostrare solidarietà, calma, perfino capacità di rinuncia e di sacrificio oggettivo in favore di una squadra. Perfino Lula, Luiz Inácio, lo sapeva, e anche Angela Merkel con le sue gonnelle da orripilante matrona approfittava della potenza metaforica del calcio per raccogliere adepti facilmente convertibili in voti". Ultimo minuto possiede la folgorante bellezza di un dribbling di Pelé o di Maradona e la crudeltà del rigore sbagliato da Roberto Baggio (il nostro Achille) nella finale tra Italia-Brasile a Pasadena, al mondiale negli Stati Uniti del 1994. Leggerlo è un dovere per ogni appassionato di football e letteratura.   Darwin Pastorin

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