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«Siamo spiati tutti, incombe su tutti un disastro. E perché? Perché alla radice di tutto c’è la troga». Queste parole dice una vecchia signora al commissario di polizia Pantieri. Siamo a Roma, in un’epoca imprecisata che assomiglia molto al nostro passato recente. Entro poche ore, lo stesso Pantieri sente persone assai diverse cadere nello stesso apparente lapsus: dicono «troga» invece di «droga». Ma, come ogni bravo investigatore, Pantieri pensa che il lapsus sia un passo verso la verità. Che cosa sarà, allora, questa «troga»?
Comincia qui a tessersi, fin dalle prime righe, una trama delle più stupefacenti, complesse e oltraggiose. Vi incontreremo sètte devote al Male, feroci delitti, banchieri, politici corrotti, terroristi, ragazze di vita: in breve, la cosiddetta normalità italiana. Qui tutto sembra troppo assurdo al suo primo apparire, ma tutto finisce poi per trovare il suo posto nella delirante e precisissima costruzione. Nel commissario Pantieri sarà facile intravedere un omaggio all’Ingravallo del Pasticciaccio di Gadda. Meno evidente, ma non meno significativo, l’omaggio a John Belushi. Di fatto, la qualità ‘demenziale’ della realtà, che sembra essere una acquisizione peculiare degli Anni Settanta e Ottanta, parla qui con naturalezza in una struttura narrativa dove tutto è al tempo stesso tragico e irrisorio, tenebroso e pacchiano, esasperato e plausibile. Finalmente l’Italia torbida, grottesca e sanguinaria dell’affare Moro, dell’inflazione, dei servizi segreti e della massoneria ha trovato il suo romanziere.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Una bella trama dalle tinte surreali costruita su un linguaggio ed un contesto favolosi. Magnifico libro.
[...] il valore di un romanzo è altro che la verosimiglianza con la realtà, è nel modo in cui è scritto, e qui siamo di fronte ad un libro scritto con mano eccezionalmente felice, Rugarli tesse e ricama con ogni singola parola, che immagino soppesata e misurata prima di essere messa nella narrazione, tanta è la precisione e la evocatività che rappresenta. Il linguaggio del Rugarli è a mio avviso una delle migliori espressioni della letteratura italiana di questi ultimi vent’anni, l’autore gioca con le parole, usa aggettivi che riescono a rappresentare perfette sfumature di colori, così come stati di animo, le descrizioni dei luoghi in cui si svolgono le azioni sono acquarelli mirabilmente precisi, ma densi di rimandi ad altre dimensioni visive. [...]
Una lezione di stile e di ironia. Dovrebbe essere adottato nelle scuole di scrittura.
Recensioni
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recensione di Pomilio, T., L'Indice 1988, n. 7
Orde spettrali di nembi-dirigibili vediamo incombere, con tutta una potenza strana di Furie sospese, a raccordare terrori e torbide trame, nel singolare ordigno storico-allucinatorio che ha nome "La troga". Autore ne è un Giampaolo Rugarli, Grande Funzionario di Banca ora a riposo, che pare voler riversare adesso dal suo buon ritiro, nella placida campagna romana, tutta l'atra bile d'un temperamento saturnino. Esisterà forse qualche oscura connessione fra gloria dell'interesse e mortificazione del Libero Arbitrio? E in verità, come per la tragedia classica, al di sopra di questo pasticciato intrigo par imperare incontrastata l'ombra cupa-cieca del Fato, nel senso cioè, se voi volete, della Paralisi, della Catastrofe, del Diluvio - non riparatore o fecondo - ma invece aggravatore, greve di carni putrefatte, di lerce fami. Eccoli allora i dirigibili, che sorvolano fittizi (perché, si scoprirà, non sono che artifizi, illusionistiche proiezioni sullo schermo dei nembi), lo scenario politico-apocalittico a loro offerto, ercoli controllare tutta intiera la fitta trama, dall'alto, come dèi di sventura.
"Troga" è novello conio rugarliano (che Sciascia giura apparirà presto o tardi nel Battaglia), derivato dal greco, e vorrebbe dire qualcosa come corroder, rodere, "rosicchiare piano piano". Esercizio di corrosione quindi da un interno, per un interno; lavoro metodico o furioso da tarlo, in un trionfo mandibolare per cui nutrirsi e nidificare sono lo stesso (nutrirsi delle fibre ròse, talpare dentro il cuore ròso delle fibre). Questo lavoro sono le trame di Stato. Ossia (dalle note di copertina) lo Stato "dell'affare Moro, dell'inflazione, dei servizi segreti e della massoneria" ("troga" è di fatto una società segreta di pretto stampo piduista). Tramare tessuti immaginari, ovvero "sanguinari" o "grotteschi" (ancora dalle note di copertina), vuol dire concepire il corpo dello Stato come gigantesco, carnevalesco campo per la mascherata dei poteri personali; e Citati parla di questo romanzo come della scoperta dell'"irrealtà essenziale di quegli anni di apparente storia italiana", del grand guignol nerissimo intessuto dal proverbiale Grande Vecchio", non altri che un "grande romanziere" dickensiano. Nel dettaglio, la partita viene giocata fra i due eminentissimi Onorevoli Orazio La Calenda (maschera, si presume, di Giulio Andreotti), e Lauro Grato Sabbioneta (maschera di Aldo Moro); col corredo bizantino ed essenziale di tutta la filosofia politica maturata nell'ultimo quarantennio: dal sistema della corruzione, strettamente determinato da un severo "rigore morale", se "la corruzione di uno o di pochi non è accettabile, mentre la corruzione di tutti annulla lo stesso concetto di corruzione"; al meccanismo paradossalmente perfetto di società civile in cui "la vita non è più questione di conoscenza ma di appartenenza", di devozione a un Gruppo (o a un sottogruppo, o a un sottogruppo del sottogruppo), e per il quale ogni più elementare diritto (persino quello "alla buona salute e alla salvezza dell'anima") non è che "politica"; alla "politica" come mero "ripartire", "suddividere"; al Grande Sistema, insomma, della "Democrazia" come "Pantomima". Su tutto (in acrostico), il suggello della grande sigla enunciata dal Sabbioneta: "affanculo gli affamati".
A ritessere le maglie di questo pasticcio o intrico, e cioè ad esserne ritessuto, rinveniamo uno storditissimo commissario di polizia, tale Pantieri, in svagata e casuale investigazione. Questo spettatore (assai più che attore) dei tre "Atti" (con "Prologo" ed "Epilogo") della pantomima, ancora nel risvolto di copertina viene apparentato all'Ingravallo gaddiano e addirittura a John Belushi, e a quest'ultimo, per il demenziale che sarebbe nella realtà dei fatti: quella degli anni Settanta-Ottanta in particolare. A dire il vero, al Vostro recensore è occorso piuttosto il fantasma del "certain Plume" di Michaux, vittima comico-straniata di eventi minimi e sommamente catastrofici, surreale uomo di carta tenero-idiota. L'imbecillità e inettitudine di questo fantoccio rugarliano è addirittura irritante, ma insomma è funzionale, e va benissimo così; perché non è un giallo, no, ciò che questo Autore voleva offrirci; e nemmeno una narrazione compiuta. E neppure quindi, un'organizzazione di psicologie, una parvenza di sia pure grevi, sudate, trasudanti umanità: come potrebbe infatti una maschera possedere qualsiasi misura di spessore? Se per di più trattasi, nel Pantieri, di maschera imprecisamente esistenzialista, cultrice di Tchaikovskij; sì, perché da Gadda si scivola immediatamente verso la "Nausée", e addirittura verso "La peste", con lo scatenamento di un'autentica epidemia terroristica, con tanto d'intellettuale-untore, in anni di piombo, a Roma.
A trasudare, ad impregnare coscienze e sonni della propria sozzura, sono piuttosto le cose stesse; se questa "Troga" è un incubo, dell'incubo possiede tutta la conformazione metereologica e geologica: geografia della corrosione nei suoi luoghi e effetti, fenomenologia, direi, della corrosione nel suo giusto Luogo elettivo: la Roma che si rigonfia tutta del proprio mito decadente, Gran Santuario sacrificale del selvaggio Occulto di Stato. L'immagine super-realistica di Roma è in questo libro ossessiva, struggente; ricolma di livide efflorescenze, di cancrene, di putride tentazioni; ricorrendo temporali luridi a foggiare ancora pozzanghere, rigagnoli, tutta un'estetica pesante della palude e dello schifo. Un tale descrittivismo eccessivo e sfatto, fatalmente fatalistico, è in fondo la verosimiglianza stessa, del tutto allucinatoria, di questo libro "disgustoso" e impossibile: la cui vita paradossale e sensuosa è tutta nella negatività eccessiva ivi messa in opera, nella sua fascinazione di serpente.
Ma ancora meglio, potremo parlare del paradosso della "riuscita" (se questa nozione ha un senso) di un romanzo incongruente, squilibrato, inqualificabile come questa "Troga" qua: e "riuscito", si direbbe, proprio perché squilibrato, sfilacciato, inqualificabile: cosi al di fuori insomma da qualsiasi standard di consumo, e al tempo stesso palpabile e avvolgente da inquietare. Questo ingordo trocar clos (trocar in castigliano, informa ancora Sciascia vuoi dire fra l'altro "vomitar, arrajar lo que se ha comido"), questo brogliato similgliommero segnato dalla paralisi del Fato si epiloga entro un concluso orticello da coltivarsi lontano dai rumori del mondo, fra; monti di Calabria, dove raccontarsi l'assurdità del mondo lontano, perché tutto poi debba restare come prima. Fra Eventuale Candidico ed Eterno Gattopardesco, fra note di pessimismo cosmico e una vita da costruirsi sull'isola deserta con uno stregone e una puttana, fra disgusto e connivenza, che è naturale effetto d'ogni stato di paralisi, questa vicenda finalmente giunge alla sua fatale ricomposizione. La vita è progresso fatale da un'ingestione, a una digestione, a una defecazione, insomma: parola di Lauro Grato Sabbioneta.
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