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Uno scandalo che non sia disponibile la versione italiana della trilogia. Uno dei più grandi capolavori del XX secolo. Ancora più scandaloso che non esista in italiano il terzo romanzo della trilogia, L'innominabile, un testo essenziale per poter apprezzare in pieno il percorso esistenziale di Beckett.
Un dono del cielo. E criminoso che in Italia sia ormai fuori catalogo. Nell'anno del centenario beckettiano, poi. Assurdo: appunto.
Beckett è forse l’unico scrittore che ha saputo raccontare il silenzio ed il vuoto. I suoi personaggi abbandonano progressivamente azioni e movimenti per divenire pura voce in un puro presente. La Trilogia (ma anche il successivo Com’è) ci cala in un inferno più che dantesco, fatto di nebbia e nulla, dove la “parola proferita” è tutto ciò che esiste.
Recensioni
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recensione di Rognoni, F., L'Indice 1996, n.10
A due anni dalla preziosa "Pléiade" del "Teatro completo", la stessa Einaudi presenta, in una traduzione ineccepibile, e per la prima volta in edizione integrale, il capolavoro di Beckett narratore: la trilogia di romanzi "Molloy", "Malone muore" e "L'innominabile", scritti in francese fra il '47 e il '50 (presumibilmente per resistere all'"angoscia dell'influenza" di un precursore formidabile come il Joyce di "Finnegans Wake"), e solo in seguito tradotti in inglese dallo stesso Beckett. "Aspettando Godot", che avrebbe decretato il successo d'un autore non più giovane (era del 1906), ma fin allora sconosciuto ai più, fu scritto, ancora in francese, tra la stesura di "Malone muore" e quella dell'"Innominabile", "per distaccarmi - parole di Beckett - dalla terribile prosa di quel periodo"; mentre, in altre occasioni, sempre Beckett affermò che, a differenza del romanzo, il teatro lo rilassava perché gli forniva uno "spazio definito".
Il che basti a suggerire, per contrasto, l'impressione che il lettore prova più s'addentra nella "Trilogia": "disorientamento", "smarrimento" essendo senza dubbio parole troppo deboli. Ed è fra i pregi dello splendido saggio introduttivo di Tagliaferri, che pure propone una molteplicità di percorsi interpretativi, quello di non demarcare il testo beckettiano, rispettando tutto il terrore della sua "indefinitezza". La quale non è ottenuta - come certa avanguardia prima e dopo di lui ci ha abituato - con violenze o forzature sintattiche e lessicali, bensì nella semplicità, nell'assoluto nitore della frase: anche quando, come alla fine dell'"Innominabile", essa si protrae per pagine e pagine.
Con un po' di buona volontà, "Molloy" e "Malone muore" potrebbero anche essere riassunti, il primo magari nella trama di una quasi classica detective story (dove inseguitore e inseguito siano l'uno il doppio dell'altro), il secondo come straziante, e riluttante, confessione autobiografica; mentre l'"Innominabile" sconfigge ogni tentativo di parafrasi. Sullo "scandalo" immedicabile delle sue personae, di nuovo Beckett: "L'eroe di Kafka ha una sua coerenza di propositi. È perduto, ma non è spiritualmente precario, non cade a pezzi. I miei personaggi sembrano cadere a pezzi". E davvero la decomposizione è all'ordine del giorno, senza che nessun dettaglio ributtante, scatologico o peggio, ci venga risparmiato (perché "a chi non ha nulla è proibito non amare la merda"): con immenso strazio e furore, e spesso irresistibile comicità, ma anche una strana dolcezza - la "tranquillità della decomposizione", dice Molloy - che su tutto diffonde una tonalità elegiaca, virgiliana.
"Ou maintenant? Qui maintenant?" dichiarò Blanchot all'uscita dell'"Innominabile" (1953), e a rileggere il romanzo adesso, a quasi cinquant'anni di distanza, le stesse domande vengono alle labbra con la medesima, stupefatta urgenza. Sarà la totale mancanza di autocompiacimento, la palpabile necessità dei suoi eccessi: la "Trilogia" resta un'opera estrema e freschissima, ancora "genuina" anche se abbiamo letto tutta l'école du regard, le finzioni di Borges, i postmoderni americani, l'Oulipo, Calvino... Il quale Calvino - lo scopro spigolando la magnifica edizione Barenghi dei suoi "Saggi" (Mondadori, 1995) - avrebbe probabilmente terminato le sue "lezioni americane" for the next millenium (come recita il titolo originale) proprio nel nome di Beckett, con un riferimento a "Improvviso dell'Ohio" (una pièce dell'81), che si adatta perfettamente anche alla "Trilogia": "Forse per la prima volta al mondo c'è un autore che racconta l'esaurirsi di tutte le storie. Ma per esaurite che siano, per poco che sia rimasto da raccontare, si continua a raccontare ancora".
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