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Dopo il caso Carretta e la confessione di un tremendo delitto in diretta tv, la recensione del libro di Antonio Ricci è ancora più opportuna del previsto; in un certo senso, non c'è stato commento a quel fatto (mediatico, reale?) che non sia stato, in concreto (si leggano gli articoli di Curzio Maltese sulla "Repubblica" del 1° dicembre e di Francesco La Licata sulla "Stampa" dello stesso giorno), anche una ripresa del nucleo centrale del saggio di Ricci, e specie di tutta la sua seconda parte. È in questa infatti che il libro di Ricci, messe da parte le strizzatine d'occhio al pubblico amante delle sue battute più cattive e l'aneddotica da dietro le quinte con cui si propizia i lettori più distratti, diventa un serissimo saggio che mostra il mezzo e il meccanismo televisivo, e pone l'interrogativo, oggi ineludibile, se il reale che esiste sia quello visto o solo quello televisto.La televisione è falsità, finzione; eppure non c'è nulla di più (ritenuto) reale di quello che appare in televisione: questo il succo di Striscia la Tv, che il caso Carretta ha reso di drammatica attualità. Se questa è la filosofia televisiva di Ricci, ne segue che la sua tecnica sarà sempre quella dello straniamento, dell'esposizione caricaturale della finzione, dello svelamento, della sarcastica esibizione dello strumento e delle sue forme, dei suoi stereotipi.Mai, come nelle sue trasmissioni, infatti, la struttura, la forma è stata messa a nudo, chiamata in causa, enfatizzata e ridicolizzata in una sorta di Beaubourg fatto solo di pilastri, cavi, tiranti, tubi e senza niente dentro. Di questa tecnica, obiettivo e mezzo primario è il linguaggio.Il linguista, in effetti, trova molte ragioni per riflettere su questo libro, anche al di là dei due capitoli sulla lingua, ripresi da interventi dell'autore a essa specificamente dedicati e tenuti davanti a paludate e canoniche adunanze di linguisti (all'Università di Trento e all'Accademia della Crusca). Il trattamento del linguaggio è infatti, almeno dai tempi di "Drive In", uno dei pezzi forti della televisione di Ricci. Intendiamoci: il comico del discorso è una forma della comicità di sempre, compresa quella filmica (pensiamo a Totò) e televisiva. Ma la lavorazione del linguaggio fatta da Ricci non punta tanto a giocare con le parole o con i diversi livelli (sociali, regionali) della lingua, quanto a svuotare le parole del loro significato convenuto, a doppiarne la semantica e soprattutto a radicarle in modi di dire, cliché, frasi fatte, per cui, decontestualizzate e ripetute fuori di ogni proposito, si riducono a figure vuote di un linguaggio che non parla più."È lui o non è lui" o "Cosa c'è? cosa c'è?" che costellano le recenti trasmissioni di "Striscia la notizia" sono qualcosa di diverso del classico tormentone comico.Non a caso non sono frasi o parole da laboratorio, ma espressioni fisse e comuni della lingua, che, deprivate di ogni sostanza comunicativa, diventano segni del nulla semantico, della banalità, del vuoto della nostra telecultura quotidiana. La televisione allora si fa davvero specchio del discorso comune e diventa tragicamente vero che l'unico discorso pubblico (agli altri) è oggi quello, il meno comunicativo e più autoriflesso di tutti, fatto alla televisione.I giochi con le parole di Ricci sono anche il segno di un materiale linguistico ormai del tutto diverso da quello che avevano a disposizione i comici della generazione precedente la sua. Basti osservare come il tratto regionale e dialettale (forte anche nei testi di Ricci, dal sardo al calabrese al ligure) non sia mai un segno di differenza culturale, di opposizione sociolinguistica, ma (checché ne pensi l'autore stesso) solo una brillante colorazione stilistica, un esercizio di bravura senza pretese di realismo né di parodia regionalistica o dialettale.
recensioni di Coletti, V. L'Indice del 1999, n. 02
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