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Una eco di realismo magico che da Macondo è giunta fino in Monferrato, nella discendenza del Gran Mastèn, leggendario capostipite di questa famiglia di "particulari", ossia di possessori di terre e bestiame. Una saga familiare in cui la drammatica crudezza della "Malora" e dei racconti langhigiani di Fenoglio si stempera nel lirismo di una scrittura precisa ed evocativa, in cui il tempo modella i personaggi come fanno il vento e l'acqua con le colline su cui vivono.
L'ho già letto quattro o cinque volte e continuero', continuero'. Ogni volta c'è un particolare in più da assorbire, o una scena da rivivere. Assolutamente splendido, cosi umano, vero, profondo. E che dire del linguaggio ? Magnifico, puro come un cristallo. E' vero : ho un debole per Rosetta Loy, di cui ho letto tutto. Ma questo resta per me il capolavoro.
Rosetta Loy costruisce, con uno stile preciso ed evocativo, un'accattivante "storia familiare" che si sviluppa in una dimensione temporale compatta e unitaria (i grandi cicli storici, il flusso delle stagioni, gli avvenimenti quotidiani). I personaggi, descritti nella loro tensione fisica e psicologica, sono immersi in un'atmosfera percorsa da mutamenti a volte suggestivi, a volte crudeli in cui si scorge anche un lampo di magia e di mistero.
Recensioni
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MONDO, LORENZO, I padri delle colline, Garzanti, 1988
LOY, ROSETTA, Le strade di polvere, Einaudi, 1987
(recensione pubblicata per l'edizione del 1987)
recensione di Ceserani, R., L'Indice 1988, n. 6
Le vicende di questi due romanzi si svolgono in due località del Monferrato che sono a un tiro di schioppo l'una dall'altra, un poco più basso il paese di Mirabello, da cui le strade di polvere salgono a Lu o scendono a Giarole, un poco più alti, profilati sulle colline, risalendo il corso del torrente Grana, i paesi di Viarigi e Montemagno, fra vigne, campi arati, stalle, casali e castelli, dove è fiorita l'adolescenza del protagonista dei "Padri delle colline".
I due romanzi sembrano avere un tema in comune: il recupero e la rievocazione di un passato di vita contadina che è ormai definitivamente archiviato, affidato a segnali e ricordi che non solo chi arriva oggi in quei paesi su veloci autostrade, ma anche chi arriva a piedi e circola a lungo, e interroga persone e documenti, non riesce più a cogliere. E tuttavia, all'analisi, l'ampiezza, gli scopi e i risultati delle due operazioni romanzesche, le strategie e messe in scena narrative risultano profondamente diversi.
C'è una differenza estrinseca, ma importante: Rosetta Loy rievoca la storia di una famiglia, dentro una gran casa di proprietari contadini, tra la fine del Settecento e il 1879. Il suo è, a tutti gli effetti, un romanzo storico, nella variante della saga di famiglia. Lorenzo Mondo rievoca fatti molto più circoscritti, limitati agli anni in cui il suo protagonista adolescente sfollò da Torino al paese del Monferrato e vi rimase sino alla fine della guerra, e assistette agli scontri fra partigiani da una parte e tedeschi e milizia fascista dall'altra, e conobbe le prime avventure conoscitive, le prime amicizie e i primi amori. Il suo, quindi, è un romanzo storico e autobiografico a un tempo. Se però si vanno a vedere i meccanismi narrativi, risulta che lo spessore della storia è forse più presente, paradossalmente, nel libro di Mondo, il quale per catturare le stratificazioni nel tempo della vita umana e penetrarne e capirne i meccanismi mette in atto tutta una serie di sondaggi ed esplorazioni in profondo, mentre nella Loy il frequente uso del presente non riprende i modi degli storiografi antichi, che vivacizzavano le loro pagine facendo uso del "presente storico", ma risponde a un bisogno di attualizzazione, di vivace coloritura, di rappresentazione di gesti, comportamenti, passioni, sentimenti sotto l'aspetto esotico e affascinante del passato.
Quello della Loy si può forse definire un romanzo-diorama. Gli eventi sono strappati dal flusso ininterrotto del tempo, messi in scena come in un tableau vivant, colti nella loro fresca colorita e un po' artificiosa peculiarità. Il senso del tempo, oltre che dagli effetti di "tempo ravvicinato" assunti da molte delle scene rappresentate, è dato dagli scatti improvvisi e dai salti fra un tableau e l'altro, con nuovi protagonisti, nuove passioni, nuove acconciature e nuove movenze, come in un diorama circolare che dà il senso dello scorrimento ciclico della natura, dell'alternanza ritmica delle stagioni, del trascolorare e filtrare di sentimenti eterni come l'amore, la fatica, la gioia; il dolore, la morte. Tutto è fresco e presente, pronto per la facile immedesimazione, in questi diorami, eppure tutto è lontano ed esotico, e non c'è gioia che non sia filtrata da colori primaverili e accompagnamento di trilli e di trombe, e non c'è morte che non sia resa dolce e immalinconita dalle nebbie, dai biancori dell'inverno, o resa squillante, a contrasto, da zampilli di rosso sangue, crudeli vendette della natura, rintocchi rappacificanti di campane.
La messa in scena narrativa è affidata a una regia abile e disinvolta, che sa guardare tutto da una certa distanza, con l'occhio acuto o con la prospettiva appiattita del cannocchiale, o può cercare la rappresentazione ravvicinata, con una lente di ingrandimento se necessario, o può prestare a personaggi improbabili straordinarie finezze e consapevolezze e stili di vita, o può nascondersi dietro l'occhio stupito di un bambino (e cosi vedere con immaginazione infantile le meraviglie di una città lontana come Genova o di un paese esotico reso presente dalle campagne militari o dalle vicende dell'emigrazione), o può far filtrare la testimonianza da spettatori di contorno un po' distratti, che poco sanno e molto hanno dimenticato. A volte il narratore entra dentro la mente e assume la prospettiva di un personaggio, e condivide eccitazioni e accecamenti, altre volte sembra ignorare quel che passa nei cuori e nelle menti, rappresenta solo atti e movenze, smette di mimare il parlato, si ferma con minuzia documentaria, e gusto decorativo molto colorito un po' decadente, sulle cornici e gli ambienti: paramenti sacri a ricami splendenti, salotti con i divani capitonné, ma anche la fila delle oche che scendono a bere, il brulicare dei pidocchi sulla testa del vecchio contadino, e così via.
Quali sono i modelli letterari? I grandi realisti e decadenti dell'Ottocento per la nettezza dei particolari, la preziosità dell'aggettivazione, il senso dei colori, gli episodi di festa e di morte. Quando, poi, il nitore lustro e preciso delle scene si intorbida di elementi fantastici, coloriture magiche, apparizioni inquiete, vibrazioni, allora viene in mente, accanto ai narratori della grande tradizione, anche qualche moderno, di provenienza forse sudamericana, un po' fiabesco e un po' fantastico, anche se dei sudamericani come M rquez mancano qui le eccitazioni linguistiche e narrative e le profondità antropologiche.
Resta, alla fine, un dubbio: a che servono questi diorami splendenti? Ci sono, in essi, accanto ai preziosi elementi decorativi e al gusto illustrativo, anche elementi conoscitivi? È possibile, oggi, continuare a scrivere come Nievo o Thackeray o Tolstoj limitandosi a movimentare e sveltire le strategie della rappresentazione Potrebbe un musicista d'oggi scrivere una sinfonia o un poema sinfonici senza nessuna dimensione ironica, un pittore fare quadri storici o quadri d'ambiente come un romantico o un impressionista o un macchiaiolo?
Diversa è la strategia narrativa di Mondo. Anche lui si compiace di salti temporali improvvisi, di mutamenti di scena, ma questo montaggio rapido di elementi di scrittura diversa - brani di ricordo, documenti d'archivio, descrizioni minute, descrizioni più larghe e ariose - ha lo scopo di mettere in scena una forma di narrazione che vuole rappresentare l'esplorazione curiosa e entusiastica, procedente per tentativi, del giovane protagonista che si trova improvvisamente trapiantato, dal dramma della guerra, un paese in cui cultura e comportamenti sono carichi di motivazioni antiche e nascoste.
La curiosità per la stratificazione antropologica del paese spinge il protagonista a ricercare i documenti delle guerre e dei popoli antichi, franchi longobardi e saraceni, che lì vicino, sul greto di un fiume, han combattuto battaglie cruente. Ma le letture giovanili di Salgari e Ariosto, e i sogni e le ritualità adolescenziali, colorano di avventuroso sentimentale il materiale storico e quello folclorico. E nel frattempo, mentre scoppia piena l'adolescenza, la realtà drammatica dell'oggi invade sempre più la scena: dalla terra scavata dal giovane protagonista in missione di archeologia storica affiora improvvisamente il cadavere di un soldato tedesco ucciso in un agguato e seppellito alla meglio, l'antico castello, pieno di tesori, di ritratti che si animano in sogno con in un racconto di Gautier e di dolci monache di clausura, si trasforma in moderno fortino al centro di una battaglia tra partigiani e milizia; il messaggio lasciato da un partigiano in fuga si trasforma in enigma storico-archeologico sulle pitture rupestri degli antichi liguri.
Non so fino a che punto i vari tipi e modi di scrittura raggiungono una vera fusione nella misura, tutto sommato concentrata, del romanzo breve. Ma, certo, i singoli episodi e tratti di scrittura, in sovrapposizione, funzionano bene come strati di una realtà antropologica e storica, e anche linguistica, penetrata con successivi scandagli.
Il linguaggio, teso fino alla preziosità e alla neoformazione lessicale e aggettivale, porta i segni della ricerca, non è esornanivo o decorativo: le farfalle che si posano sui morti insepolti in un episodio di sogno, sono "antigoni raccolte ad ali giunte". Angelica e Turandot si fondono e la principessa orientale che ne risulta monta sull'ippogrifo, l'acqua del torrente ove i maschi nudi vanno a bagnarsi è "brividente e torbida", il volo delle gazze è "breve e astato", le gengive della lepre presa dai cacciatori sono "scoperte sui denti inarresi", i rosignoli "rabescano la notte di note vermiglie", l'amico Giovanni che si è congiunto con i partigiani salva nel rischio la sua "vitalità tigliosa, arbustiva" e, piccolo esempio di poetica en ab
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