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Un resoconto serio, documentato e attendibile su cosa sono stati i Gulag e su chi siano stati i giusti nei Gulag.
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Cosa resta della dignità umana e dell'etica quando gli uomini si trovano nelle condizioni estreme dei gulag e dei campi di sterminio? L'angoscioso interrogativo attraversa da decenni le memorie e la letteratura sulla violenza organizzata nel XX secolo. Una risposta aperta alla speranza viene data da Nissim nell'introduzione alla raccolta di saggi qui recensita: la tragica esperienza del gulag ha consentito l'emergere di "uomini giusti". Ma chi è un "uomo giusto"? Nissim propone tre possibili definizioni, legate al senso comune religioso: "un martire della Chiesa"; un uomo dal "comportamento integerrimo e coerente in tutto il corso dell'esistenza"; colui che ha la "prerogativa di redimere una società in preda al male".
Nessuna delle tre definizioni è convincente. Anche se il gulag non fosse esistito, noi potremmo parlare dell'esistenza di un terrore sovietico che, nella sua lunga parabola, ha brutalizzato decine di milioni di persone, colpite per le loro idee, per l'appartenenza etnica e religiosa, per la posizione sociale, per un capriccio, o nel corso delle lotte di potere. Prima di essere vittime, molti furono a loro volta carnefici. Trovare un unico filo conduttore sotteso a queste vicende e alle azioni dei loro protagonisti è impresa, prima che discutibile, impossibile.
La fede domina gli scritti di Florenskij e di Solzenicyn. I racconti di Salamov sono intrisi di una religione panteistica che non lascia spazio a speranza e redenzione. Le memorie di Natalja Ginzburg sono un atto di accusa contro il regime, pronunciato in nome della fiducia in un socialismo diverso. Nadezda Mandel'stam descrive la pavidità della società. Metter non fu mai imprigionato, ma i suoi racconti sono la testimonianza più impietosa della vita degli "uomini superflui" al di fuori del gulag. Sergej Kovalëv, del quale il testo riporta un commosso saggio sul suo compagno di lotta Marčenko, passò dieci anni, fra lager ed esilio in Siberia; liberato, dal 1987 dedicò il suo impegno alla lotta per i diritti umani in Urss. Grossman, nota Vittorio Strada, fu uomo del sistema, spinto dall'onestà e dalla curiosità intellettuale a scrivere la più compiuta riflessione di epoca sovietica sulle analogie fra totalitarismo staliniano e nazista, ossia il romanzo Vita e destino. Sacharov, anche lui membro della nomenklatura, divenne dissidente per difendere i valori democratici. Sostenne Gorbacëv, e altrettanto avrebbe fatto più tardi, sino alla guerra di Cecenia, Kovalëv con El'cyn; furono criticati per queste loro scelte, ma loro scopo fu di difendere non la "verità", ma quanto di meglio aveva da offrire il XX secolo nel campo della difesa dei diritti della persona e della democrazia. Una prospettiva ben diversa da quella di Solzenicyn per il quale bisognava "ricostruire" la Russia a partire dai valori dell'ortodossia religiosa.
Ridurre questa polifonia di voci e di esperienze personali e politiche all'unica categoria di "giusti", è operazione arbitraria. Desta perplessità la selezione di "storie esemplari" fra "coloro che hanno avuto il coraggio di denunciare il Gulag", operata da Elena Dundovich. Solo chi scrive è davvero martire? Non lo sono altrettanto coloro che hanno dato vita alle rivolte armate nel gulag, che noi conosciamo solo attraverso i documenti ufficiali, e forse per questo vengono ignorate nella raccolta di saggi? O i milioni di kulaki, o membri appartenenti ai "popoli puniti", che non hanno scritto perché non ne avevano la possibilità materiale e intellettuale? Un mondo di vinti, non necessariamente di rassegnati (basti pensare alla vicenda cecena). Non tutto è nelle memorie: non certo il numero delle vittime del terrore. Lo dimostra l'improvvisata appendice al testo, che fornisce, basandosi su di esse, cifre di fantasia, ignorando i documenti pubblicati a partire dal 1991.
Le memorie hanno appena sfiorato l'interrogativo che più dovrebbe inquietare l'uomo d'oggi: cosa induce a rendersi complici di crimini orrendi, o a osservarli passivi? Dopo più di trecento pagine, lo affronta alfine Arsenij Roginskij, il fondatore di Memorial: la Russia d'oggi non vuole ricordare. Le ragioni sono intuibili. Il totalitarismo, termine ricorrente nei contributi alla raccolta, è categoria terribile, che non può essere disinvoltamente usata, come fa Pierluigi Battista, solo per lanciare un anatema (giusto o infondato che sia) contro i silenzi della sinistra italiana. Se riferito alla società sovietica, esso implica la capacità del regime di instillare nei propri cittadini, per decenni, una concezione della vita "normale" nelle quale non c'era spazio per il rispetto della persona umana e del dissenso. Ricordare è dunque operazione necessaria, ma penosa, che non può essere limitata ad alcune vite esemplari di "giusti". Al termine non v'è alcuna promessa di "redenzione", ma solo la riaffermazione del dovere morale, da parte di chi si è trovato "di fronte all'estremo", di raccontare, se può, affinché gli altri sappiano e a loro volta ricordino.
Fabio Bettanin
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