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In dodici capitoli l'autore si interroga, e ci interroga, sulla deriva democratica che stiamo vivendo, e a cui sembra ci siamo malinconicamente arresi, delegando ad altri (economisti, network, intelligence...) il diritto di agire, decidendo delle nostre vite e delle sorti del mondo. Viviamo, quindi, in uno stato di minorità - come veniva definita da Kant nel suo saggio sull'illuminismo l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro -, e non ce ne dispiace. Se nel Novecento si lottava, anche sanguinosamente (guerre mondiali, terrorismi, attentati), presi da passioni, estremismi, faziosità partitiche, oggi "la più cieca e insensata irrazionalità mercantile e finanziaria" ha spodestato il confronto politico tra gli individui, mentre l'interesse personale, la chiusura nel privato, la difesa egoistica del proprio benessere, il raggiungimento del successo spadroneggiano in ogni aspetto della vita pubblica e culturale. Giglioli analizza alcuni dei nodi centrali intorno a cui si avviluppa la riflessione contemporanea sull'essenza costitutiva del potere: respinge come inefficace qualsiasi posizione di puro rifiuto, e si chiede invece quale possa essere l'alternativa a una resa impotente che inibisce le persone alla prassi, alla partecipazione politica attiva. L'aggressività, forse, o la fuga? Ovviamente, è da respingere qualsiasi soluzione violenta: "Il terrorismo è un delirio di onnipotenza cui sottende una condizione di impotenza radicale". Se non si deve ricorrere all'insurrezione, altrettanto inefficace risulta l'atteggiamento rinunciatario, vittimistico, di evasione: "Non è tanto l'impotenza a garantire innocenza, ma la mancata assunzione di responsabilità per la propria inazione a generare il desiderio di sentirsi innocenti, cioè vittime". Bisogna invece tornare a essere di parte, a preferire emotivamente il confronto anche conflittuale piuttosto che una concordia fasulla: affrontare il negativo, rendendolo produttivo.
Recensioni
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