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Ottimo libro, non è un manuale aeronautico come alcuni professori dicono. Poche nozioni di aeronautica e molta poesia.
Imprescindibile se amate il volo, sia che abbiate mai pilotato sia che vi fermiate ogni volta che passa un aereo a fissarlo a naso all'insù.
Letto e riletto, esprime al meglio le paure, i dubbi e le sensazioni di chi vola. Se per i 'non aeronaviganti' potrà sembrare strano, tutti i piloti, dagli aereoclub alle linee commerciali, si ritroveranno in questo scritto di Del Giudice. E finalmente, leggendolo, chi ci è vicino potrà capire la nostra grande passione.
Recensioni
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recensione di Bertone, G., L'Indice 1995, n. 4
Non so se vi è mai capitata tra le mani una carta aeronautica ('low altitude enroute chart') per volo strumentale. Si sa, poche derrate culturali nella storia degli uomini danno conto di un mondo sociale, economico, mentale quanto una mappa. Se quelle nautiche riducono la terra a costa e il mare a tracciati di rotte, queste d'oggi per il volo sono un conglomerato di numeri, sigle, frequenze, settori graduati e quant'altro vibri in codice nell'etere: solo cifre. Ormai puri residui, la terra e i mari vi compaiono come un tenue fantasma, qualcosa intravisto attraverso una fitta nebbia.
Ciò sa bene Daniele Del Giudice che al volo, praticato da lui medesimo su piccoli aeroplani a elica, ha voluto dedicare per intero il suo quarto libro. Né gli è sfuggita, anzi con essa ha fatto i conti, la domanda: quali sono le possibilità del corpo e della mente nel tempo dell'etere ipercodificato e fatto mappa? E quali le possibilità della narrativa?
Ciò che subito raccogliamo e siamo disposti a seguire trepidi fin dai primi passi (mica ci siamo abituati) è il manifestarsi di un'esperienza di cose e di macchine; esperienza non fittizia, precisa e autentica (a prova di expertise del perito), l'esperienza disinteressata del pilotaggio e ciò che esso comporta immediatamente - che vorrà dire nello spazio di secondi - quanto a responsabilità e pattuita prossimità con la morte.
Quel tanto di autobiografico che l'opzione trascina con sé e Del Giudice non rifiuta, viene più o meno distanziato, staccato con una tattica micrometrica attraverso, innanzitutto, espedienti tecnici di nobile e recente ascendenza (l'antenato è ben visibile): già il primo racconto ("Per l'errore", cronistoria del primo volo da solista), così come il quinto e il sesto ("Fino al punto di rugiada", "Manovre di volo") usano la seconda persona, un "tu" che progressivamente si moltiplica: "tu" indefinito, "tu" rivolto a se stesso ("tu", pilota; con piega autoironica), "tu", Bruno, l'anziano maestro di pilotaggio, la guida, voce di fuori e voce di dentro. E se ci sono da raccontare - potevano non esserci? - le battaglie aeree della seconda guerra mondiale, tutto allora è integralmente delegato alla bocca e alle mani del reduce (uno dei "pezzi" che più catturano, di forte tenuta al di là dell'aneddotica: 'Pauci sed semper immites'). La presenza dell'"io" insiste invece là dove i protagonisti sono altri ("Doppio decollo all'alba": la ricostruzione delle probabili ultime ore di volo di Antoine de Saint - Exupéry, un personaggio-scrittore che affascin• e lasciò perplesso Primo Levi). Oppure l'"io" è solo testimone (del duetto tra i fantasmi dei due comandanti caduti coi passeggeri dell'Atr 46 nel noto incidente sulle Alpi, che continueranno fuori del tempo a ripetere il dialogo contenuto nella scatola nera in quegli ultimi istanti di ghiaccio ruvido sulle ali, di tentativi e di errori: "Tra il secondo 1423 e il secondo 1797"); o proprio, all'opposto e una tantum, quasi a dimostrare che non ci sono troppi complessi, là dove l'"io" rievoca la propria infanzia di bambino-aeroplano con le braccia allargate come ali ("E tutto il resto?").
"Pezzi", dunque, questi e altri, ma chiamati assieme non solo in forza della coltivazione riga dopo riga del significato metaforico - il volo come addestramento alla vita - , a tratti fin troppo esplicitato, ma, ben di più, da una tensione sottesa che li infiocina tutti sulla traiettoria di temi ricorrenti: l'errore, l'esperienza, l'opposizione velocità/rallentato, l'opposizione occhio/mano (e libro/mano: l'elogio della laconicità puramente utilitaria del 'check-list', forma di scambio tra lettura e controllo manuale, forma di preghiera laica), il paesaggio esteriore e quello assimilato e che ci assimila. Dove c'è un corpo in concentrazione e in attesa, dove c'è un corpo e la morte, là c'è un paesaggio; e un discorso sul paesaggio.
A guardare più dall'alto, due sono le mosse decisive che rendono persuasivamente compatta la serie testuale di "Staccando l'ombra da terra" (titolo azzeccato: suona come un bel verso in clausola d'adonio) e reclamano il nostro credito: la lingua e la scelta del tono lirico (perché di questo in fondo si tratta). Sulle quote altimetriche dell'una e dell'altro una precisazione per evitare equivoci. Lo stile punta alto, non altissimo, ma certo procede a un setacciamento lessicale e a una stratigrafia sintattica di colloqui e ragionamenti rapidi o lenti ma sempre compiutamente dipanati, frutto evidente di ricercatezza e di controllo tenace ("evento ultimativo", p. 13, "evoluire in piena velocità", p. 42, con una punta persino filoermetica o precisamente montaliana: "nella quiete che conserva memoria dei voli", p. 36), con continua commistione al "comico", non tanto di parole, quanto d'intreccio di discorsi, discorsi diretti senza virgolette, piani diversi del soliloquio e del colloquio, tempi verbali compresenti, secondo recentissima tradizione nostrana, con punte di prezioso (vedi, a p. b9, la digressione sull'Ente, quasi alla Manganelli; ma l'ente è reale, è quello del controllo di volo a terra). Solo da questa specola va intesa la seconda componente, il lirismo, come scelta non epica da un polo, non minimalista dall'altro, ma distantissima da tutti e due.
Del Giudice ha insomma scelto il suo campo, lo ha delimitato e percorso "fino in fondo" come nella pista del primo decollo. Non c'è spazio per l'eroico nell'epoca della surrogazione elettronica del pilota ("l'epoca del tramonto del pilota": non lo diceva già la carta?). Rimane solo una banda laterale, minima ma determinante e conquistabile. La serietà della scommessa sportiva (ma l'hemingwaysmo è lontano miglia) è prima di tutto nell'impegno del linguaggio, unico strumento di bordo per dominare i pensieri e controllare il lirismo e trascenderlo, trasformarlo in qualcosa di più solido e oggettivo. Controllo ,dei sentimenti, controllo dell'inconscio, controllo del corpo, della paura: questo libro che della misura fa l'oggetto di ricerca è anche un libro di metamorfosi moderne. Esatte, progressive, impercettibili metamorfosi di una massa pesante di materiali metallici e plastici in aeroplano che s'innalza, o viceversa del leggero velivolo in peso e ferraglia precipitante; del bambino in uomo e dell'uomo in pilota; dei liquidi e dell'umido in mari, nuvole, nebbia e ghiaccio, della paura del disorientamento e della cecità nel mezzo del pulviscolo brumoso in lettura degli strumenti interni - il labirinto dell'orecchio, la percezione dell'orizzonte - e di quelli di bordo; delle parole private e frammentarie in messaggio più obiettivo, 'check-list' a futura memoria o forse già per una memoria più ampia, collettiva. Nel saggiare le possibilità di quella "scienza del fare" che è il volo (il volo e lo stile, pur accolti nella loro precarietà statistica: "il volo come dimensione estrema della possibilità") che avrebbe scaldato lo spirito dell'antenato cui si è già fatto cenno e anche qui presente, c'è pure, s'è capito, una morale. Ovvero una moralità: dietro le spalle ogni abbandono alle emozioni, ogni virus o tic o rifugio di malattie moderne o post, dietro le spalle la mistica della marginalità o del paese o l'affogo nel pasticcio terrestre o nei ludismi verbali, il libro di pagina in pagina si modella come autoritratto dell'autore nell'atto di presa di coscienza cinestetica. E perciò di autocontrollo esistenziale, misurato 'in re', verificato nel suono e piega delle parole e nell'approssimazione successiva del pensiero, riverificato sulla mano quando correttamente regge i fili della sopravvivenza. Anche nel senso anglosassone del 'to do one's best', s'intende. Dentro i cieli non continentali della narrativa italica (cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, "L'Italia senza narrativa", "L'Indice" n. 11, 1994) la così poco italica e volutamente "inattuale" performance di Del Giudice, che ha previsto per benino la possibile panna e la evita (anche la difficoltà estrema del romanzo, come suggeriva già la carta aeronautica), fa leva sul poco, ma gli dà portanza e stabilità. L'eredità dell'antenato, lascito di stilemi, ideologemi, descrizioni, visioni, metalinguaggi, è già superata almeno in ciò che in ultimo a Calvino, in piena sindrome da iperleggera mongolfiera stratosferica, fu impossibile: toccare le leve, inserirsi nel mondo, ripartire da terra per cogliere poi la differenza dello stacco.
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