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commovente. non abbiamo idea del dolore di coloro che subiscono queste perdite. questo libro ci aiuta a capire un pò di più la loro sofferenza e il torto subito, e a sentirsi più vicini. mi stringo a loro con un abbraccio.
Mario... sei un grande...
Commentare un periodo difficile, tragico per la storia d'Italia come gli "anni di piombo" in poche righe è un'impresa impossibile, quasi paralizzante. Certo non lo si può leggere come un documento storico o sociale o sociologico del tempo, anche perché allora non basterebbero volumi e volumi. È semplicemente la posizione da parte delle vittime, non tanto e non solo per l'omicidio in sé, ma per tutto il clima prima e dopo in cui è maturato ed è stato gestito dalle istituzioni e dalla società. Sembra quasi impossibile che abbiamo attraversato quegli anni, io ero ancora un ragazzino e mi ricordo solo qualche fatto di cronaca: il rapimento di Aldo Moro per esempio, eravamo a scuola ed il clamore della notizia era come se avesse bloccato tutta la città, tanto che non sapevamo più come tornare a casa. Sembra impossibile che ci siano state persone che abbiano potuto pensare di poter decidere della vita della gente a proprio piacimento, seguendo ideali folli ed unicamente criminali. Eppure ci sono state, eppure ci siamo passati attraverso; lo Stato ha retto, ha dato prova di maturità democratica, senza derivazioni golpiste; ma se non fosse stato così, adesso dove saremmo?
Recensioni
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E' un libro doloroso questo di Mario Calabresi, il giornalista di Repubblica che, all'età di 37 anni, ha deciso di tornare ai tempi bui della tragedia di suo padre, il commissario Luigi Calabresi ucciso a Milano nel maggio del '72. Un libro necessario, che riscrive la storia della famiglia Calabresi e di alcuni altri familiari di vittime del terrorismo degli anni '70, "gli anni di piombo", definiti da Sergio Zavoli "notte della Repubblica" italiana.
La storia comincia dal presagio di quell'omicidio tutto politico: sui muri di Milano e sulle pagine del quotidiano Lotta Continua, il commissario Calabresi era indicato come l'"assassino di Pinelli", l'anarchico Giuseppe detto Pino, precipitato dalle finestre della Questura di Milano nel corso di un interrogatorio sulla strage di piazza Fontana. Quello che sarebbe seguito, il nonno di Mario Calabresi l'aveva previsto e aveva cercato di convincere il commissario a cambiare lavoro e a lasciare Milano. Il portinaio del palazzo dove vivevano da settimane ormai nascondeva la posta, piena di minacce e di insulti; finché non capì tutto anche la madre di Mario, che allora aveva solo 25 anni e un terzo figlio in arrivo.
Questo libro nasce da un lento lavorìo della memoria e dalla volontà caparbia di capire il clima di odio e di violenza di quegli anni: Mario Calabresi, quattordicenne, aveva fretta di sapere e così trascorreva molte mattinate a studiare i microfilm della biblioteca Sormani, a Milano, per leggere le cronache dell'omicidio su tutti i numeri del Corriere, dell'Espresso e poi anche di Lotta Continua, per capire i perché di quella "caccia all'uomo", di quella campagna d'odio spaventosa. Nel libro racconta anche l'incontro commovente con Antonia Custra, figlia di un padre mai conosciuto perché ucciso anch'egli dai terroristi nel '77. E con Francesca Marangoni, la figlia del direttore del Policlinico ammazzato dalle Brigate Rosse nel 1981. Ovviamente torna anche sulla morte di Pinelli ("in casa nostra non è mai stato un nemico") che rappresenta l'altra faccia della tragedia di suo padre, indivisibile nel braccio di ferro infinito che da 40 anni li contrappone. E scrive a più riprese, con chiarezza, ciò che è emerso dagli atti processuali: "tutti, concordemente dissero che nel momento in cui Pinelli precipitò, Calabresi non era nella stanza" dove invece c'erano altri cinque uomini della Polizia. Calabresi prosciolto, dunque. Ma nel frattempo era stato ucciso. A quel vuoto che perdura, a quell'assenza profonda, il libro cerca di dare una qualche, seppur velata, risonanza.
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