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Giuramento, tradimento, confessione, perdono, colpa, riscatto: la riflessione dell'ultimo Derrida si è soffermata su argomenti che riguardano sia l'etica sia la cultura e il suo rapporto con il sociale. Partendo dal commento di un romanzo di Henry Thomas intitolato appunto "Lo spergiuro" (in cui il protagonista si trova a tradire ripetutamente se stesso, le sue aspirazioni artistiche, il padre, la prima moglie, i figli, la seconda moglie, la legge, non sempre e solo per negligenza, egoismo o malignità, ma addirittura per leggerezza), Derrida si chiede: "E' possibile commettere uno spergiuro "senza pensarci"? Per distrazione? Non per trasgressione attiva e deliberata ma per dimenticanza?" E conclude che: "non si può ragionevolmente chiedere a un soggetto finito di essere capace, ad ogni istante, nello stesso istante, e anche solamente nel momento voluto, di ricordarsi attivamente, attualmente, in atto, continuamente, senza intervallo, di pensare tutti gli imperativi etici ai quali, per essere giusti, dovrebbe rispondere. Sarebbe disumano e indecente". Si rinnega la propria fede, dunque, si tradiscono le ideologie, si sconfessano le amicizie e gli amori, si abiura per timore, viltà o interesse: perché non si è in grado di rimanere fedeli nemmeno al proprio io, a causa della molteplicità di voci che ci abitano. Testimonianze di spergiuri si trovano in Omero e nella Bibbia, nelle Confessioni di Sant'Agostino e di Rosseau, in Proust e in Kafka; tutta la letteratura è di per sé finzione, invenzione, menzogna, e ogni scrittore tradisce la realtà inventando i suoi personaggi e le sue trame. Persino nella grammatica esiste lo spergiuro, nella figura retorica dell'anacoluto. In uno stile ironico e provocatorio, il filosofo francese riesce a smontare l'illusione di una verità univoca, del dovere implacabile della coerenza a se stessi, e la stessa identità soggettiva dell'io, appellandosi alla non linearità dell'accadere, alla sua incolpevole e incorreggibile anarchia.
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