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Come per le visite ai campi di concentramento e di sterminio è necessario, prima della visione di questa opera, conoscere la storia della Shoah per capire meglio come Lanzmann affronta nel suo complesso la questione. Solo in questo modo è possibile addentrarsi nelle nove ore di un documento visivo unico e straordinario, che a quasi quarant'anni dalla sua realizzazione non ha perduto nulla. "una sorta di evento originario" lo definiva Lanzmann, "un film sulla radicalità della morte e non sui sopravvissuti".
La più grande opera filmata sulla Shoah è anche uno dei migliori documentari di sempre. Lanzmann realizza un lavoro che per profondità e completezza è un vero e proprio pezzo della memoria del mondo. In questa edizione troviamo il film diviso in quattro parti con l'aggiunta di un libro preziosissimo che contiene il testo del film, con l'aggiunta di saggi estremamente significativi che offrono spunti interessanti sul documentario e sull'immane tragedia dello sterminio degli ebrei. L'unica pecca è che nella versione originale i sottotitoli sono in francese.
È molto difficile dire qualcosa di esaustivo su questo monumentale documentario. La sua visione è necessaria ed imprescindibile per comprendere la grandezza dell'opera, l'immensità del male e dell'abisso che ha inghiottito non solo milioni di vite, ma anche le coscienze dei sopravvissuti, segnati in modo indelebile da quella che forse è stata la maggiore tragedia del '900. Definire "Shoah" come un documentario è riduttivo, terribilmente riduttivo, perché ho avuto l'impressione che il concetto stesso di memoria, doverosa e salvifica memoria, si sia materializzato in questo stesso lungometraggio.
Recensioni
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Il racconto del testimone dovrebbe essere restituito così com'è, senza essere "artisticamente ritoccato", scriveva Primo Levi in una sua dimenticata pagina, scritta poco prima di morire. Le immagini "sono il migliore esperanto": un concetto nuovo, rimasto purtroppo incompiuto. Levi scriveva appoggiandosi, al solito, a un classico della tradizione italiana. Non a Dante, ma a una sorta di suo equivalente figurativo: "Non sono osservazioni nuove, le aveva già formulate Leonardo nel suo Trattato della pittura; ma, applicate all'universo ineffabile dei Lager, acquistano un significato più forte. Più e meglio della parola, le immagini riproducono l'impressione che i campi, bene o mal conservati, più o meno trasformati in alti luoghi o santuari, esercitano sul visitatore; e, stranamente, questa impressione è più profonda e sconvolgente su chi non c'era mai stato che non su noi pochi superstiti".
Lo scrittore torinese non fece in tempo a parlare di Shoah di Claude Lanzmann, per quanto il film fosse uscito due anni prima della sua morte, né ebbe modo di sviluppare un concetto diventato per noi assillante, non solo in Italia. Il problema della conservazione dei ricordi o, come più comunemente si dice, la politica della memoria. Esposizioni, musei, memoriali, ma soprattutto testi di letteratura, pellicole cinematografiche. Levi si scagliò, molti lo ricorderanno, contro Portiere di notte di Liliana Cavani. Possiamo, purtroppo, soltanto fantasticare su ciò che avrebbe scritto di Schindler's List di Spielberg, di La vita è bella di Benigni-Cerami, di Ogni cosa è illuminata di Schreiber-Foer, del Pianista di Polansky. Soprattutto, sarebbe stato importante per noi conoscere il suo giudizio sulla impresa gigantesca di Lanzmann, sui criteri del suo lavoro preparatorio, qui efficacemente sintetizzati nella fondamentale intervista resa a Serge Kaganski e Frédéric Bonnaud, ora tradotta in italiano e inserita da Sessi nell'appendice. Il cofanetto riproduce il dvd con le oltre nove ore e mezza del film, ma contiene pure un libro con il testo (sottotitoli inclusi) di Shoah. Fa adesso notizia una buona notizia l'ingresso del cofanetto nelle classifiche dei libri più venduti, come credo non sia accaduto per nessuna iniziativa analoga. Fa invece questione per chi si occupa di questo genere di problemi l'accostamento diretto fra immagine e parola scritta. Si prova una sensazione analoga a quella che si prova tenendo in mano il libretto di un'opera musicale.
L'arte della fotografia, dice sempre Levi, poiché possiede un valore aggiunto, potrebbe forse spiegare le singolarità della storia dei luoghi, di certi luoghi diventati non-luoghi: "la fantasia teatrale e maligna", ad esempio, in virtù della quale un impianto per il trattamento industriale del riso come la Risiera di San Sabba ha potuto essere convertito da città-emporio, in cui buona parte del cereale veniva importata dall'Estremo Oriente, in "una fabbrica di tortura". Il caso-Lanzmann dimostra come il cinema possa dare di più della fotografia.
Se la fotografia riesca a rendere "buona" la ricezione di un messaggio per definizione "cattivo" oppure, come altri sostengono, se non vi sia nulla da fare e la verità non possa esprimersi in altro modo che con il silenzio è questione aperta, e certamente per poterla affrontare con cognizione di causa non si può prescindere dal capolavoro di Lanzmann.
Come osserva Sessi nella prefazione, Shoah pone inoltre un secondo problema, non meno cruciale di quello della liceità dell'immagine filmica: la comprensione dall'interno dell'esperienza dell'annientamento. Anche per questo nodo complicato la comparazione con l'ultimo Levi, con il Levi dei Sommersi e i salvati è d'obbligo. Il Levi, s'intende, ultimo ed estremo, quello del periodo 1984-1987, che, a dispetto di tanti luoghi comuni, è ben altra cosa rispetto al Levi speranzoso dell'esordio di quarant'anni prima.
Dal medesimo principio, secondo cui nel Lager sarebbero periti i migliori e nella non meno pessimistica clausola accessoria, espressa nei Sommersi e i salvati, secondo cui gli unici capaci di dare testimonianza completa sarebbero coloro che sono stati inghiottiti nel nulla , parte anche Lanzmann, che però non ha trovato, per sua fortuna, sulla sua strada un Agamben pronto a trarre da quella premessa rapide conclusioni di tipo nichilistico. Eppure i Sommersi e i salvati potrebbero ben dirsi, come scrive lo stesso Lanzmann della sua opera, un libro "sulla radicalità della morte e non sui sopravvissuti".
Fatta questa premessa si può facilmente approvare la conclusione del curatore, che ci invita saggiamente a distinguere, nella storia della Shoah, come in qualsiasi altro campo del sapere, le opere che fanno un cattivo servizio alla memoria, o si propongono di sfruttare soltanto la contingenza commerciale favorevole, dalle opere come questa, che sono necessarie per capire.
Alberto Cavaglion
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