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recensione di Papuzzi, A., L'Indice 1998, n.11
Leggere un racconto di Rigoni Stern è come tornare a casa.La nuova raccolta ne contiene sedici, suddivisi per argomenti in tre parti. Le prime due sono simmetriche, composte ciascuna da cinque racconti. Il primo è dedicato a ricordi personali: il ritorno dalla prigionia, l'infanzia e la guerra.Il secondo ad archetipi del paesaggio dell'altipiano: il pastore, le nevi. Il terzo al rapporto fra passato e presente, il quarto a memorie che si perdono nella leggenda, il quinto al mondo onirico e immaginario. La terza parte raccoglie invece cinque brevi racconti di animali e la descrizione d'una gita con gli sci da fondo, in cui sotto la neve s'intravvedono i mutamenti che la montagna ha subito con la modernità.
Dietro l'apparente facilità di scrittura, che sembra sgorgare dall'esperienza dello scrittore come l'acqua da una sorgente montana, si profila dunque una rigorosa architettura.Allo stesso modo, la semplicità narrativa, che si rispecchia in una verosimiglianza d'altri tempi, è il frutto d'un paziente lavoro alla ricerca della parola esatta, che può essere quella e soltanto quella.Ma la novità di questa raccolta ci sembra l'atmosfera onirica in cui talvolta la memoria si perde, come quando un vecchio, ripensando il lontano passato, smarrisce il confine tra ricordo e sogno.
Le suggestioni neorealistiche, d'impronta vittoriniana, a cui apparteneva "Il sergente nella neve", fortunata opera d'esordio alla metà degli anni cinquanta - pubblicata, come tutte quelle successive, da Einaudi -, e la vena naturalistica che all'inizio degli anni sessanta alimentò "Il bosco degli urogalli" hanno trovato una inquieta fusione nell'esperienza della memoria: il passato bellico (cui appartengono "Quota Albania", 1971, e "Ritorno sul Don*, 1973) non è più rivissuto, il paesaggio alpino (vedi anche "Uomini boschi e api", 1980, e "Il libro degli animali", 1990) non è più descritto, l'uno e l'altro possono essere soltanto evocati, come riverberi di un orizzonte che si allontana. Si sono trasformati in un sentimento dell'esistenza, misurato sulla traccia lasciata da una volpe, e in una reinvenzione del passato.Questo processo di smussamento e compenetrazione fra i due mondi in cui è vissuto lo scrittore dell'altipiano era già venuto in evidenza in "Amore di confine" (1985) e "Le stagioni di Giacomo" (1995), due raccolte in parte speculari. Nelle concise pagine di una raccolta minore come "Sentieri sotto la neve" approda tuttavia a una dimensione enigmatica, come ha scritto Andrea Zanzotto, a proposito dell'opera di Rigoni Stern, quando ha parlato della "eco misteriosa di una lingua che era in noi e che noi abbiamo perduta".
In questo senso leggere questo amato scrittore italiano è come tornare a casa, in un'epoca in cui la casa non è più una dimensione del reale.Proprio come, in "Storia di Tönle" (1980), il libro più bello, il vecchio Bintarn, avendo viaggiato mezza Europa, torna alla casa sotto il Moor, senza arrivarci.
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