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La delicatezza con cui l’autore espone i dolori e le gioie del protagonista sembra quasi innaturale, a un lettore poco attento potrebbe sembrare priva di energia e passione. Ma questa energia e questa passione ribolle, impalpabile a chi non ne sente l’urto, in sottofondo, nascosta nelle pieghe delle parole, nel susseguirsi delle frasi, mai casuali, sempre dirette a uno scopo, sempre intessute parola per parola per generare emozioni. E l’intento dell’autore, trasmettere sensazioni senza dover ricorrere necessariamente a quello stupore, a quel grido che molti invece adoperano, viene pienamente raggiunto tramite uno stile delicato, soffuso, ma allo stesso tempo tremendamente potente e travolgente. Il protagonista del romanzo esprime la necessità di “spogliarmi di tutto, persino dei miei pensieri più belli, perché la nudità è più seducente dei miei pensieri più belli. Non aspiro a essere uno o due o duemiladue, ma semplicemente un nulla, uno zero, tondo e assoluto”.
greve, pesante, noioso sia nella scrittura che nell'argomento. abbandonato a metà.
Recensioni
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Nella mia esperienza di lettore, c’è un solo modo per capire se un libro ha valore o no, ed è quello che mentre lo sto leggendo lui legge me o una parte di me. Questa cosa non succede spesso, ovviamente. Questo perché la narrativa è sempre più tesa allo storytelling, alla costruzione di un mondo ideale in cui il lettore si sente parte di un racconto, di una fiction, che lo rassicura perché, in fondo, non lo riguarda.
La sabbia di Léman invece mi riguarda da vicino, come lettore e come uomo, perché è una storia e non c’è storia che non riguardi l’essere umano, le sue evoluzioni o involuzioni, le sue caducità e le sue criticità, le sue disperazioni e i suoi successi, le sue ricerche e le sue trasformazioni. Ecco, La sabbia di Léman è un libro che parla di una trasformazione, di una metamorfosi. Un testo leggibile a più livelli, polisemico e ricco di spunti per pensare alla nostra condizione transitoria. È il viaggio di Carlo, il protagonista, che cerca di superare due perdite: la morte di Amelie, l’amata Scottish Terrier, e la fine dell’amore con Sebastien.
Sperduto, tradito dal passato e incerto del futuro che lo aspetta, Carlo decide di andare in Giordania, nel deserto di Wadi Rum, dove incontrerà Amin. E proprio il deserto è l’elemento chiave del romanzo. Prima di procedere, vorrei che noi tutti prestassimo attenzione alla copertina del libro e al titolo: La sabbia di Léman. La sabbia e il deserto, il lago di Léman, le nuvole della bellissima opera di Elvio Chiricozzi. A ognuno di essi corrisponde, simbolicamente, uno dei tre personaggi principali del libro, in ordine: Amin, Sebastien e Carlo. Sono tre elementi (terra, acqua, aria), che corrispondono anche alle tre fasi della nostra vita: la nascita, la vita e la morte. Manca il 4, direte, ovvero il fuoco. Invece il fuoco, inteso come energia, trasformazione e passaggio, è nel libro ed è il tema principale del libro stesso.
Carmine Sorrentino riesce a mettere in scena, da uomo di teatro qual è, una continua opposizione di forze, un continuo sfregamento di opposti che in natura, come nell’arte, sono responsabili di una tensione. Allora ecco che alla Svizzera, patria della finanza, del capitalismo, degli scienziati, dei laghi e della cioccolata, corrisponde la Giordania, terra di storia, di tradizioni, di sufismo, di sabbia e di leggende; all’acqua, la terra; alla paura e alla colpa, la speranza, alla Storia, con la “esse”, maiuscola la storia di un uomo, al passato, il futuro. Ognuna di queste entità si fa simbolo e, come insegna Ricoeur, il simbolo dà a pensare, ed è proprio questo che li tiene insieme. Su tutti il deserto. Non è un caso se ognuno dei tre personaggi è rappresentante di una delle tre grandi religioni monoteiste e non è un caso che l’origine delle stesse sia comune: il deserto. È dal deserto che inizia la storia del popolo eletto, per volontà di Yhwh, è nel deserto che Gesù affronterà le tentazioni e nel deserto Maometto avrà la sua rivelazione di Allah.
Il deserto, dunque, è simbolo e metafora insieme. Mentre noi occidentali lo percepiamo come un non-luogo, un posto in cui la natura nega la sua rigogliosa forza e dove è impossibile vivere, esso è in realtà un limbo, il posto in cui, proprio perché non c’è nulla, ci si può fermare a riflettere su se stessi. Il deserto è l’annullamento delle proprie volontà, della hybris dell’uomo, un luogo in cui purificarsi e ripartire. Il deserto è il luogo della rinascita, ed è anzitutto un luogo mentale, l’opus alchemico. Jung diceva che la vera sfida della psicologia sarebbe stata quella di diventare pensiero, non un semplice artificio per guardare dentro le persone. E questa è la sfida che accetta Carlo, guardarsi dentro per isolare il dolore e lasciarlo andare, a differenza di Sebastien che invece è ossessionato dall’Olocausto e dal dover seguire i precetti della propria religione o della società borghese. Sebastien è la metastasi di Carlo, il suo cancro, la cellula impazzita che si è ribellata al suo corpo. La cura, allora, può essere (di nuovo, alchemicamente) solo nel simile: “Il mio nome, che mi accompagna da sempre come un estraneo, finalmente si è fatto da me riconoscere attraverso il suono della voce di Amin. ‘Carlo’ mi ha raggiunto come una brezza marina, come un gioco di note, ma anche come scontro di suoni diversi: la ‘c’ appena aspirata, intimidita davanti ad una ‘a’ prolungata e severa, la ‘r’ arrotata, forse arrabbiata, una sorta di anima torva illuminata però da una morbida ‘l’ che di colpo si tuffa nel fondo di una ‘o’ quasi perfetta” (pp. 30-31).
Ciò che per paura, senso di colpa o codardia una persona può togliere, viene restituito dal sorriso e dagli occhi color del cielo di un’altra. In una sola notte, ma emblematica, rito di passaggio, quale è quella di Capodanno, Carlo accoglie la mano che gli tende il deserto e riesce a liberarsi dal dolore, dalle paure e dal passato: “Era solo, era unico, era l’uno. È così che nacque il due” (p. 121). Carmine Sorrentino è uomo di teatro e di arte, usa le parole come colori, le umanizza al limite del gesto. Attraverso una scrittura fortemente evocativa, mostra come il dolore sia una fase di passaggio. Proprio come le nuvole, appunto, che se si addensano lo fanno solo per mostrare, appena diradate, la magnificenza della luce. E del perdono.
Recensione di Roberto Di Pietro
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