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Titolo: Riportando tutto a casaAutore: Nicola LagioiaEditore: EinaudiData: 2009
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
ho trovato questo libro francamente insopportabile, l'ho finito nella speranza di una redenzione finale che purtroppo non e' arrivata.
Un meraviglioso romanzo di formazione a ritroso nel tempo, scavando nei giorni di un'epoca - corrotta e crudele - che ricordiamo con forse esagerata nostalgia (gli anni ottanta). Lagioia rivive, in modo doloroso e precisissimo, la sua adolescenza in una Bari che è stata un po' come tutte le città di quegli anni.
Alcune belle pagine, alcuni scatti vertiginosi, ma anche tanta pretenziosità, a volte irritante. Un'occasione in parte mancata.
Recensioni
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Goffredo Fofi, nell'intervista con Oreste Pivetta, La vocazione minoritaria, uscita da poco per Laterza, ha ribadito che gli anni ottanta sono stati "il decennio più stupido e inutile" che il nostro paese ha vissuto. Riportando tutto a casa, il terzo romanzo del barese Nicola Lagioia dopo Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (minimum fax, 2001) e Occidente per principianti (Einaudi, 2004), è un'investigazione su questo decennio recente dal punto di vista della città di Bari e di tre adolescenti che vi crescono, tre figli della nuova imprenditoria rampante che in pochi anni, quegli anni ottanta, ha bruciato le tappe della struggle for life capitalistica, tre figli del benessere, del superfluo e della televisione, insomma.
Il racconto è di uno dei tre, la ricostruzione dei rapporti complessi tra loro, delle dinamiche di gruppo e provinciali, del disprezzo e odio verso genitori anaffettivi e disgustosi, delle cose su cose che riempiono una vita vuota, delle feste sempre più decadenti che diventano la cartina di tornasole generazionale e degli approdi autodistruttivi come l'eroina. "Le civiltà si compiono nel momento in cui si dissolvono nel nulla" proferisce uno dei cinici squali del romanzo, commentando la caduta del comunismo e fiutando nuovi affari, ma è una sentenza ultimativa che vale anche per noi stessi. Quella di Lagioia è infatti un'analisi a posteriori, a vent'anni di distanza, del momento della nostra mutazione antropologica e culturale, come popolo e paese: gli anni ottanta, come risulta dalle pagine di Riportando tutto a casa, sono esistiti in perfetta continuità con i precedenti anni ideologici e sono il perfetto presupposto dei nostri. Un periodo in cui la televisione si conquista la posizione di medium principe, si trasforma in inconscio collettivo, al tempo stesso metronomo dell'"onda cronologica" e creatrice di storia: il disgelo, la tragedia dello stadio Haysel, Cernobyl, il Muro diventano tutti e solo eventi mediatici che scandiscono il tempo e penetrano con la stessa forza nel tessuto culturale come Drive in e la televisione spazzatura.
Quella che Lagioia racconta è un'umanità guastata fatta di esistenze completamente svuotate di valori e di fini. Il paradosso di questo libro è che l'autore rende più credibili i vecchi dei giovani, i genitori invece dei figli, perché i primi sono i veri attori e fautori dell'ascesa sociale di quegli anni e i secondi sono solo spettatori inerti. In questo senso Riportando tutto a casa è un romanzo fuorviante proprio nel suo impianto (addirittura è fuorviante la bella copertina di Gipi, nonché la quarta di copertina), perché vorrebbe essere un romanzo di formazione di provincia e, al contrario, è un implacabile ritratto di una generazione precedente, quella degli attuali cinquanta-sessantenni. La voce di quest'ultima si avverte più vera, le tragiche esistenze di questi nuovi ricchi sono più plausibili nella loro mediocrità e nel loro conformismo e la loro caratterizzazione psicologica è spaventosamente attuale, mentre i giovani appaiono troppo artefatti e funzionali alla storia, sono mal delineati e hanno una voce a cui non ci si riesce ad affezionare. Anche il racconto del narratore appare più lucido e ficcante nella descrizione dei genitori e sfocato in quella delle situazioni formative. Per questo è un romanzo statico, né interamente una discesa all'inferno, né una presa di coscienza (al limite incompleta), ma è simile a una coazione, una ricaduta delle colpe dei padri sui figli, il ripetersi di una condanna.
Nonostante questo, Lagioia è uno dei nostri migliori scrittori che ha la capacità di squarciare alcune delle sue pagine attraverso l'unione dello stile e di una visione del mondo sempre lucida e rivelativa che lascia spesso il lettore senza punti di riferimento. La sua è una scrittura ibrida da una parte classica e dall'altra, molto pop, fatta di continue allusioni e citazioni, come dice anche il titolo dylaniano del romanzo. Da tempo, già dai primi racconti (ne ricordo uno apparso sul "Caffè letterario" intitolato 1992), Lagioia ha intrapreso la strada di una narrativa nostrana segnata da Arbasino, Busi, Siti e, perché no, Pasolini, e con questo romanzo ha accentuato una vena pessimistica e una prospettiva senza speranza partendo da un periodo buio della nostra storia recente: "Di un'esistenza trascorsa per intero nel proprio regno d'elezione non avremmo la possibilità di ricordare il minimo dettaglio non ci sarebbe niente da riportare a casa, perché niente ne sarebbe mai uscito".
Nicola Villa
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