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Anno edizione: 1996
Anno edizione: 1996
Anno edizione: 1993
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Questo volume, facente parte di una collana chiamata "Fare l'Europa" ideata e diretta da Jacques Le Goff in collaborazione con altri eminenti studiosi, ha il pregio di essere un saggio sì rigoroso e ben articolato ma non pedante e per pochi studiosi. Eco ha l'abilità di smarcarsi tra la babelica quantità di temi e variazioni che il soggetto del libro richiamerebbe con una sintesi adeguata e mai banale. La ricerca della lingua perfetta, che si potrebbe tradurre anche come la ricerca di una lingua comune per l'Europa come missione unificante dal punto di vista socio-politico-culturale, è un viaggio affascinante sulla natura e le origini non solo del linguaggio in tutte le sue declinazioni realizzate o realizzabili o fantasiose e utopistiche ma anche sullo sforzo e la genialità di uomini illuminati che ne vedevano una proiezione di adottabilità e fruizione per i popoli europei proprio nell'altruistica speranza di una comunione di intenti, che avvicinasse o colmasse le secolari divisioni e lontananze proditorie di secolari guerre e conflitti del vecchio continente. Uno dei saggi più belli di Eco, perfettamente fruibile anche ad un pubblico non specialistico, da leggere assolutamente.
Ottimo. Un libro da leggere con calma e ponderazione.
Recensioni
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PHILLIPSON, ROBERT, Linguistic Imperialism
ECO, UMBERTO, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea
(recensione pubblicata per l'edizione del 1993)
recensione di Siani, C., L'Indice 1994, n. 5
I federalisti europei e i verdi che nel settembre 1992 interrogarono la Pubblica Istruzione e gli Esteri per sapere se fosse stata "valutata la possibilità di introdurre la Lingua internazionale esperanto nelle scuole italiane" devono aver trionfato alla comparsa della "Ricerca" di Umberto Eco. Infatti, a conclusione del suo lungo itinerario attraverso miti e magia, linguistica e logica, Eco non elude un discorso sulle possibilità "politiche" di affermazione delle lingue internazionali ausiliarie (LIA). Eco afferma che una LIA potrebbe rimanere ausiliaria, e non parlata nel quotidiano, in modo da frammentarsi il meno possibile, a differenza delle lingue naturali; potrebbe essere controllata da un'accademia internazionale per il mantenimento dello standard; potrebbe facilmente diffondersi se accompagnata a una campagna pianificata dei media; e ancora: "... gli stati che hanno poche possibilità di imporre la propria lingua, e che temono il predominio di quella altrui... potrebbero iniziare a sostenere l'adozione di una LIA"; e infine, l'esperanto "potrebbe funzionare come lingua internazionale per le stesse ragioni per cui, nel corso dei secoli, la stessa funzione è stata svolta da lingue naturali come il greco, il latino, il francese, l'inglese o "lo Swahili", anche se non è lampante la coincidenza di ragioni.
Ma le consonanze con i politici è presumibile finiscano qui. Non riusciamo a vedere come il semiologo possa avallare certe loro asserzioni (cfr. Camera Int. Vito-Elio 4/04512, 4/04626), sulle "qualità glottodidattiche [dell'esperanto] scientificamente provate dall'Istituto di cibernetica dell'Università tedesca di Paderborn", che non si capisce bene cosa significhi; o sul fatto che "molteplici e concordi ricerche dimostrano come l'insegnamento biennale della Lingua esperanto fin dalle elementari costituisce uno dei metodi più efficaci per facilitare il successivo apprendimento delle lingue straniere", assunto per noi del tutto infondato. Nonostante la risposta del ministro Jervolino giungesse negativa (cfr. Cam. Int. Rutelli 4/04946), nel maggio del '93 si leggeva la notizia che il ministero, cambiando avviso, aveva istituito una commissione per studiare la questione dell'esperanto a scuola; la quale commissione ha di recente presentato al ministro una relazione che al momento non ci è dato conoscere.
Ebbene, sarà pur vero che l'autorevolezza di Eco rassicura ma è anche vero che le sue "simpatie" per una LIA sono il frutto della ricostruzione erudita d'un sogno utopistico. Eco non ha scritto la storia delle lingue artificiali; la sua "lingua perfetta" è qualcosa di molto diverso (cfr. la recensione di Diego Marconi, L'"Indice", dicembre 1993). Né diremmo che egli intenda caldeggiare la causa dell'esperanto, consapevole com'è "della ineluttabilità dell'esistenza di lingue diverse" (Tullio De Mauro, in "la Repubblica", 5 settembre 1993). E quand'anche fosse il contrario, andrebbe forse esaminata una prospettiva effettivamente didattica - che Eco non ha in mente: non include, per esempio, nel panorama delle lingue ausiliarie quelle semplificate (del tipo Basic English), che fungono da facilitatori dell'apprendimento, se non della comunicazione tra parlanti stranieri. Per quanto poi riguarda i politici, è sorprendente la loro capacità di ignorare l'evoluzione e le esigenze glottodidattiche, spazzando via un ventennio di faticoso aggiornamento degli insegnanti di lingue italiani; a seguito del quale essi hanno imparato, talora a proprie spese, che quella che si insegna è una lingua viva, legata a una comunità identificabile e a situazioni di quotidiano scambio sociale. Per non dire di tutto l'apparato di materiali è metodologie che fanno dell'insegnamento un acquisizione e non un'improvvisazione. Il timore dei parlamentari che una lingua egemone finisca "inevitabilmente con il distruggere le altre lingue e culture" è la base esplicita dello studio di Phillipson. La sua idea implicita è che la "lingua perfetta" di questo secolo (e qui perfetta vuoi dire universalmente spendibile, uno dei sensi in cui Eco usa l'aggettivo) esiste già ed è l'inglese. E che ciò indisponga non solo i federalisti europei ma buona parte del globo, lo prova il lungo elenco di contributi bibliografici, occidentali non, su cui Phillipson basa il suo attacco frontale al neocolonialismo anglosassone sotto specie di industria export dell'inglese ai quattro angoli del mondo.
In effetti, per più di trecento pagine Phillipson (lettore d'inglese e glottodidattica in Danimarca) non fa che ripetere, con numerose e disamine di situazioni locali, una serie di concetti, su cui del resto c'è ampia convergenza: l'affermazione di una lingua egemone avviene a spese di lingue minoritarie, e segue politiche espansionistiche; così ha operato l'inglese nei confronti delle lingue locali, laddove è stato imposto come lingua ufficiale o seconda; l'imposizione è avvenuta attraverso una rete economico-commerciale sostenuta politicamente, della quale agenzia principe è il British Council, bersaglio preferito dell'autore; il progetto espansionistico ha previsto la creazione di gruppi d'insegnanti che hanno assecondato l'espansione stessa a livello locale; i sistemi educativi si sono così prospettati quali strumenti dell'alienazione di lingue locali e minoritarie; infine, gli insegnanti d'inglese, anche i più dediti alla professione, sarebbero a loro volta strumenti di questo meccanismo mondiale. Ma il meccanismo ha badato bene a non sviluppare in essi tale sentimento. Come? Scollegando la loro professione dalla struttura - che mirava all'espansione economica e talvolta militare. A dire il vero, l'interesse qui non risiede nell'insegnamento ma nella storia dei processi economici e politici, verificati nella particolare prospettiva dell'inglese come fenomeno mondiale. Ma consideriamo il libro dal punto di vista dell'insegnante e del suo lavoro. L'attenzione si avviva nel leggere il capitolo 7, sulla struttura e i canoni della didattica. Non è vero, dice l'autore:
- che sia meglio usare l'inglese dall'inizio alla fine della lezione - ciò mortifica la lingua e il patrimonio dei discenti;
- che l'insegnante d'inglese ideale sia quello di madrelingua - molta più introspezione può avere un efficiente insegnante locale che condivida il patrimonio culturale dei suoi allievi;
- che sia meglio cominciare l'insegnamento dell'inglese al più presto (leggi nelle scuole elementari) - ciò è fattibile quando non metta a rischio la lingua nativa dei discenti;
- che maggiore esposizione all'inglese dia risultati migliori - più importante della quantità di input è la sua appropriatezza e comprensibilità (cfr. pp. 185-212).
Questa è la parte arricchente dal punto di vista glottodidattico, e nessuno più del docente può apprezzarne la veridicità. Ma la cornice generale dello studio, l'imperialismo ribadito a ogni piè sospinto, sembra costringere nelle maglie di una sorta di fede che non lascia dubbi, spazi e spiragli. È pur vero che l'analisi di Phillipson è mirata alle ex colonie, dove l'inglese ha un peso ben diverso che in Occidente. E non si può che convenire con lui quando sostiene che la politica linguistica auspicabile è quella che non conculca i diritti di lingue e culture locali (egli parla di "linguicidio" e 'linguicism', coniato e usato come "razzismo" e "maschilismo"). Ma non dobbiamo dimenticare che per noi il rinnovamento glottodidattico è passato in larga parte attraverso l'insegnamento di lingue a grande diffusione, e dell'inglese in particolare. Ancora trent'anni fa, credendo di imparare a usare una lingua straniera, recitavamo regole grammaticali e sillabavamo traduzioni. Quello a cui forse i politici esperantisti vorrebbero riportarci senza saperlo.
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