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A sessant'anni dalla Resistenza si sente la necessità di ribadire con energia il senso della nostra storia. "Nello studio della Resistenza ci troviamo davanti a un perfetto caso di passaggio dal male al bene; anzi, per il nostro paese, si è trattato di un passaggio dal male al meglio". Non si devono fare incancrenire i contrasti di una cosiddetta "guerra civile", ma affogando tutto nell'impossibilità di giudizio "si finirà con il dimenticare che dalla parte giusta si colloca chiunque abbia inteso favorire la vittoria della civiltà contro il nazismo, quali che siano stati i mezzi da lui adoperati per raggiungere quell'obiettivo ". Così scrive ad esempio Alberto Cavaglion in La resistenza spiegata a mia figlia , appena pubblicato dall'intelligente e dinamica casa editrice l'ancora del mediterraneo. E Sergio Luzzato, in un magnifico volumetto del 2004, La crisi dell'antifascismo , era ancora più drastico: "Penso che alla mia generazione competa una responsabilità retrospettiva ben precisa: non consentire che la storia del Novecento anneghi nel mare dell'indistinzione. (...) Perché certe guerre civili meritano di essere combattute. E perché la moralità della Resistenza consistette anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l'Italia a costo di spargere sangue".
Un tema enorme, insomma, un ingombro e un ingorgo di rancori, di storia che non riesce a non farsi politica. L'editore Fernandel propone una raccolta di racconti in cui i narratori "si confrontano con gli ideali della Resistenza, con l'obiettivo di raccontare dell'attualità o meno di questo movimento e dei suoi valori", come si legge in quarta. I racconti di Resistenza60 sono opera di "giovani": due fra gli autori sono del '51, sei sono nati nei primi anni sessanta, gli altri otto fra il 1970 e il 1977, tutti comunque dopo il '45. E tutti testimoniano in qualche modo della crisi della Resistenza come evento fondativo e attuale. Taluni tematizzano questa crisi, verificandola nei comportamenti dei giovanissimi, spesso nella scuola, altri alludono a questa crisi ponendo la Resistenza sullo sfondo, più o meno nebuloso, delle loro pagine, talaltri non parlandone affatto. In tutto ciò niente male, un libro a più voci può ben servire anche a testimoniare, direttamente o indirettamente, una sorta di fallimento tematico, nel senso che il tema resistenziale non sembra produrre nei personaggi, ma per un bizzarro feedback anche negli autori, uno sconvolgimento di alcun genere. Nessuno attacca con acredine il mito partigiano, nessuno lo ricrea fino in fondo neppure con postmoderna centrifugante temerarietà. La Resistenza è qualcosa che non muove le viscere, non va infamata ma probabilmente non va difesa fino al sacrificio. Io mi chiedo perché questo libro sia così. E forse una risposta c'è.
La Resistenza è in realtà un tormento, un'angoscia, come lo è pressoché tutto del secolo breve: nazismo, antinazismo, fascismo, antifascismo, collaborazionismo, eroismo, vigliaccheria, stalinismo, totalitarismo, violenza, antisemitismo. Tutto è stato dolore fisico, nel bene o nel male. La Resistenza è un'ingombrante epica, un torturato trionfo, un grumo di vittoria e illusioni perdute, e come tale appartiene alla letteratura. Appartiene cioè, oltre che alla storiografia, ovviamente, alla scrittura (non usiamo le maiuscole per pudore, ma immaginiamole). Può nutrirsi soltanto di scrittura, in quanto la scrittura è per istituzione tormento. E quello che manca a Resistenza60 è appunto la scrittura. Questa antologia narrativa, come altre recenti, è un'aerosa continuata assenza di scrittura. Non intendo parlare di assenza di lingua sperimentale, di plurilinguismo o di avanguardismo. Cioè di una particolare scrittura, di uno stile particolare, come diversamente può essere lo stile semplice (il libro di Enrico Testa, Lo stile semplice , Einaudi, 1997, insegna).
Qui, in questi racconti, si constata la privazione della scrittura letteraria, della scrittura. Se ne ha un riscontro stupefacente appena ci si imbatte, con il penultimo racconto, nella citazione estesa (intervallata da narrazione in proprio) dell'estrema pagina della Questione privata . Ecco che la scrittura (non una scrittura sperimentale né semplice, la scrittura di Fenoglio) irrompe all'improvviso davanti al lettore. E lo scuote dall'impantanamento nella lingua che non ha scarto, nella lingua che non ha clic, nella lingua che non racconta, nella lingua comunicativa, sì, ma non sufficientemente sbalzata dalla lingua di tutti i giorni (che è logora, sebbene per tutti i giorni ci possa bastare). Questa scrittura di Fenoglio immette il lettore nel circuito emotivo-espressivo. E lo fa parlando al privato ( romance -romanzo) di un fatto collettivo (epos). Quindi non lo fa con le maiuscole. Ma lo fa eccome, ci comunica uno scarto sconvolgente, ci racconta la fuga di Milton: ci racconta.
Certo, l'obiezione è facile: Fenoglio è un grande narratore, mentre in un'antologia non è statisticamente probabile avere un tale livello qualitativo. Ma non cerchiamo il grande narratore, cerchiamo una comune lingua narrativa. E non la troviamo. Non la troviamo del resto in gran parte della produzione che ci viene offerta quotidianamente. Perché non esiste attualmente, crediamo, una necessità della scrittura. Né gli editori né gli autori ritengono indispensabile la scrittura, per pubblicare e scrivere narrativa.
Dunque: non c'è spazio per la Resistenza perché non c'è spazio per la scrittura, e viceversa. Se tutto questo sembra un elogio esclusivo della sperimentazione linguistica, allora mi sono spiegato malissimo (il che è possibile). Il problema è invece straordinariamente e deliziosamente speculativo, se si vuole. L'uscita di scena della scrittura è un fenomeno da cogliere con disposizione teorica, più che con canonizzazioni, faziosità stilistiche, esibizioni di pudende idiosincrasie. Se no, non ne usciamo.
Roberto Gigliucci
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