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libro graficamente elegante , scritto anche bene...ma non dice nulla di nuovo e soprattutto non una parola di autocritica su un secolo di sangue ed errori tragici....
L'ho regalato qualche anno fa ad una zia novantenne che lo ha già riletto almeno un paio di volte. Parla di una Torino dove visse proprio negli anni che Rossanda racconta, ma non le è piaciuto solo per questo. E' una grande lettrice da sempre e non di bocca buona.
Sono arrivato a metà e mi sono bloccato perché è troppo prolisso. È comunque un libro da leggere, perché offre una prospettiva molto interessante su circa un secolo di storia italiana. Sebbene sia pubblicato nel 2005, ci si chiede innanzitutto perché termini nel 1969. Da quel che si legge, poteva essere un'ottima professoressa di lettere e storia dell'arte, ma quanto a politica lascia un po' a desiderare. Già negli anni del Ventennio, non troviamo una persona che vive nel terrore, ma una ragazzina che vive tranquillamente la sua vita, va a scuola, all'università, senza imposizioni e si fa le letture che preferisce. Diverse pagine in cui elenca i suoi quadri preferiti, ma manca invece una riflessione sulle letture politiche preferite: si limita a citare qualche titolo. Addirittura ammette che per tanti anni conosceva a malapena il nome di Gramsci. E infatti la scelta antifascista, come è stato per tanti italiani, è più perché non voleva la guerra. Più quasi per caso, superficiale e banale: non conosceva gente tra i repubblicani e i comunisti erano semplicemente i più decisi a desiderare la pace. Ma non spiega cosa della dottrina fascista non le piace, cosa nelle istituzioni fasciste era carente. Non ha mai lavorato in vita sua, e quindi ammette di non conoscere dal vivo i problemi dei lavoratori. Era una burocrate di partito che se ne stava in sede e, quando andava a incontrare gli operai, semplicemente parlava di protesta e speranza. Di fronte ai morti dei regimi comunisti non fa una riflessione organica, non fa ammenda. Fino al 1948, sapeva a malapena che esistesse l'URSS, quando poi va a visitare Mosca, la portano a divertirsi a teatro, ma la vita la vede di nuovo da fuori.
Recensioni
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«Ognuno avrebbe fatto la sua strada e quando ne leggo le ricostruzioni tutto mi pare vero e sfocato, perché per un paio d’anni si fu assieme, senza generazioni e gerarchie, ci conoscevamo tutti, tutto si stava facendo, e anche i disaccordi avevano un sale.»
Pur ammirando la lucidità e l’acutezza dei suoi interventi su «il manifesto», nei confronti di Rossana Rossanda ho da sempre (e penso di non essere la sola) provato un sentimento contraddittorio, condizionato dall’impressione che in lei ci fosse un distacco, una troppo consapevole superiorità rispetto al lettore che impediva l’empatia, l’emozione, insomma quel turbamento non solo mentale, ma “del cuore” che gli articoli di Luigi Pintor avevano sempre saputo suscitare e che, alla sua scomparsa, ha fatto sentire tutti un po’ orfani e soli.
Ebbene questa autobiografia sembra voler smentire con forza quanto per anni molti hanno pensato della sua autrice: brava, ma supponente, brava, ma lontana…
La presenza in classifica del libro ormai da settimane indica come sia stato proprio il “passaparola” ad imporlo, forma autentica di successo di un’opera, e il perché è chiaro: mai ho letto un testo che abbia saputo trasmettere con tanta energia il percorso di una persona, attraverso i grandi movimenti del secolo scorso, proponendoli con l’intensità di chi li guarda dall’interno e all’interno di essi agisce.
La prima parte vede una ragazza borghese, figlia di una famiglia intelligente, dover affrontare il primo dei tanti traslochi della sua vita, da Pola a Venezia. Cambiamenti radicali, perdita di alcuni agi, ma nessuna privazione vissuta come tale. Il rapporto con la sorella, da cui solo due anni la dividono, appare fin da subito forte e solidale, la madre è una figura solare, il padre è colui con cui condividere fin da giovanissima la passione per la lettura e una certa sintonia di carattere. Da Venezia a Milano, dall’infanzia all’adolescenza, e intanto fuori da casa il fascismo: ma lei, come probabilmente tante sue coetanee, non avvertono bene che cosa ciò significhi, anche per una certa volontà, forse neppure consapevole, della famiglia di tenere lontano il privato dalla volgarità del pubblico.
Questa inconsapevolezza sarà poi l’elemento che domina anche alcuni momenti cruciali della storia italiana che sfiorano appena la liceale Rossana. L’assenza improvvisa della compagna ebrea non suscita domande, la guerra di Spagna così come è riportata dalla stampa crea un certo orrore per quei “rossi” anticlericali e cruenti, insomma l’approdo all’università la vede piena di stimoli intellettuali, ma del tutto priva di quella che chiameremo coscienza politica. L’ammirazione per alcuni docenti, e in particolare per Banfi, il passaggio in clandestinità di Marchesi, l’improvvisa scoperta del comunismo dopo un fine settimana passato a leggere in modo forsennato testi cruciali consigliati da Banfi stesso, il mettersi a disposizione della Resistenza: passaggi straordinari che coinvolgono il lettore facendogli capire molto di più di un periodo storico e il tutto presentato con la passione, la semplicità, l’incoscienza dell’età in cui era stato vissuto.
Le pagine che raccontano, senza alcuna nota trionfale o eroica, quegli anni drammatici e non privi di contraddizioni, così come quelle che parlano del dopoguerra, dell’adesione al Partito Comunista e dell’attività dirigente al suo interno, non dimenticano mai le dinamiche familiari e private in un perfetto equilibrio (così come avviene nella vita) tra le varie componenti di una persona, gli affetti, gli interessi, gli errori e le ambiguità. Credo che proprio questa sincerità austera sia una delle note di merito del libro che, e passiamo agli anni successivi e al sempre maggior impegno nel Partito, raccontando la storia di una singola vita, permette di ripercorrere anni fondamentali della storia recente non solo italiana.
Un’altra riflessione spontanea: l’importanza nella società del Pci, il suo essere luogo di idee, d’incontro e di crescita, al di là dei ruoli specifici, “fra la fine degli anni cinquanta e nei primi sessanta ci fu un veloce cambiare delle idee e perfino delle cose attorno a noi. Era il boom, la coesistenza, la nuova frontiera, la fine dei colonialismi – il tutto accompagnato da un crescere della sinistra e della buona coscienza”.
La passione del fare politica: “Mai ci si realizza come assieme agli altri, cui con naturalezza si spiega come fare – dev’essere il temibile materno, fabbricare le creature, nutrirle, insegnargli a camminare, svezzarle malvolentieri. Mai si è meno sacrificati che in un collettivo che hai scelto e cui ti credi necessaria.”
E poi il Sessantotto: “Del maggio francese si dovrebbe parlare con serietà, quasi solennemente, perché sia chi lo apprezza sia chi lo detesta non nega che abbia costituito una cesura storica”.
L’ultima parte, quella della frattura dal Partito, non è dominata da sentimenti di rancore o di rabbia, c’è un profondo rispetto, una stima (in particolare per Ingrao e Berlinguer) che la differenza frontale di posizioni e di scelte non incrina, così come anche dall’altra parte non vi fu nessuna volontà di discredito nei confronti del gruppo de «il manifesto». Uno stile e una grandezza morale insomma che oggi profondamente si rimpiange.
Il prodotto e la causa scatenante quella radiazione sono tuttora un importante riferimento politico-culturale, luogo di dibattito e riflessione, il manifesto nasce dalla speranza e dall’aspirazione di farsi voce, luogo e crogiuolo di una nuova cultura di sinistra: “Speravamo di essere il ponte fra quelle idee giovani e la saggezza della vecchia sinistra, che aveva avuto le sue ore di gloria. Non funzionò. Ma questa è un’altra storia”.
A cura di Wuz.it
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