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Anno edizione: 2008
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Ho letto questo libro in un'altra edizione tanti anni fa e rileggerlo adesso fa altrettanto male. I soprusi e la miseria che emergono fanno mancare il respiro, fanno gridare. Però alcuni di questi uomini e donne anche nel più nero dolore, nei soprusi subiti perché "nessuno" senza diritti, trovano anche sorrisi e fierezza, come Rosa Balistreri nelle sue canzoni.
L'opera (e i libri) di Danilo Dolci, noto come il "Gandhi siciliano", nascono dall'intelligenza dell'amore. Egli ha condotto, nella sua vita, azioni talmente semplici e ovvie da risultare, paradossalmente, rivoluzionarie. Per conoscere il mondo dei poveri, dei subalterni, è necessario essere con loro, come loro; talvolta basta anche solo prestare un orecchio attento e compassionevole; e così Dolci raccoglie testimonianze: nei primi anni '50 setaccia la città di Palermo e le campagne circostanti intervistando gli esclusi, i disoccupati, gli emarginati, cercando la chiave per capire e, di conseguenza, per intervenire. Questo libro, che riunisce i racconti più significativi apparsi a suo tempo in "Banditi a Partinico", "Inchiesta a Palermo" e "Spreco", riporta una trentina di testimonianze: ci sono le voci di Vincenzo, Rosario, Santo, Gaspare, nonna Nedda, Leonardo, Gino, Ignazio, Bastiano, Sariddu, Antonio, Santuzza, e quelle della guaritrice, del cavalier Volpe, del direttore dell'Ucciardone, di Angela e di Rosaria. I racconti sono crudi: storie di miseria e di degrado, storie di famiglie (troppo) numerose, di spose adolescenti, di ragazzi allo sbando, storie di fatica, di soprusi, di umiliazione; storie di orfani e di illegittimi, di malandrini grandi e piccini che vivono di corruzione e di sfruttamento. Eppure, nei luoghi più miseri e più bisognosi Danilo Dolci incontra un popolo che sa essere fiero e dignitoso. Ne parla, ne scrive. Dà voce a chi voce non ha. Ma, soprattutto, agisce secondo amore.
Stringe il cuore a leggerlo. Si vorrebbe non averlo letto per le storie vere che racconta.
Recensioni
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L'attenzione che negli ultimi tempi è stata rivolta a Danilo Dolci (testimoniata da convegni, pubblicazioni, documentari, spettacoli teatrali), pur nella difficoltà di reperimento dei suoi libri più noti, ci pone di fronte al problema della complessità e non classificabilità della sua figura. Un suo compagno e amico, Carlo Levi, fissa, in uno scritto riportato in apertura a quest'edizione dei Racconti, il senso di eccezionalità e l'irriducibilità del personaggio a categorie note: "Danilo Dolci non è un comune filantropo, uno di coloro che dedicano la loro vita, la loro attività e i loro averi ai miseri e ai bisognosi restando tuttavia estranei alla loro natura, amici ad essi, come dice la parola, ma nulla più che amici. Non è un sentimentale che si commuove per la miseria. Non è un utopista che sogna il Regno dei cieli, né un moralista che cerca astrattamente il bene, né un fanatico o un ideologo o un uomo di parte, né è mosso, come costoro, dalle potenti spinte dell'odio, dell'ambizione, della protesta o del virtuismo; e non è neppure un apostolo religioso che si proponga di propagare e diffondere una fede determinata, un rito positivo". Il percorso irregolare e personale che porta il ragazzo triestino, introverso e colto, nel cuore di una Sicilia arretrata e dolente, ha inizio nell'estate fra 1940 e 1941, quando Danilo raggiunge il padre, promosso capostazione, nel piccolo centro di Trappeto, nel Golfo di Castellamare.
È questa precoce scoperta di un mondo lontano e non immaginato a segnare per sempre l'esistenza di Dolci. Nel 1943, essendosi rifiutato di indossare la divisa repubblichina, riesce a passare fortunosamente la linea del fronte e trova rifugio presso una famiglia di pastori abbruzzesi a Poggio Cancelli. Poi riprende gli studi interrotti al Politecnico di Milano e pubblica due manuali di scienza delle costruzioni per gli studenti di architettura. Insegna alle scuole medie (dove incontra uno fra i suoi migliori amici e collaboratori, Franco Alasia) e comincia a essere conosciuto come poeta. Abbandonati gli studi in prossimità della laurea, lascia l'università e partecipa, al fianco di don Zeno Saltini, all'esperienza di Nomadelfia. È solo nel '52, lasciata "la città dove fraternità è legge", che Dolci decide di stabilirsi proprio a Trappeto, nel posto più misero che conosce, come spiega egli stesso nel bellissimo saggio Ciò che ho imparato, recentemente ripubblicato, insieme ad altri scritti, a cura di Giuseppe Barone (pp. 191, € 16, Mesogea, Messina 2008): "Ero andato a Trappeto da solo, ubbidendo alle mie convinzioni. E non mi ero trovato in una situazione in cui qualcuno non ce la faceva, e poteva farcela dandogli una mano: mi ero trovato in una massa di gente che stava male, in una situazione in cui in genere la gente non sapeva uscire".
In questo ambiente difficile e angusto –– –in cui si consuma la vicenda del banditismo meridionale, si consolida il controllo economico-sociale della mafia e si annullano le istanze del movimento popolare che aveva dato segnali forti attraverso le elezioni del '47 e l'occupazione delle terre – è destinato a esplodere "il caso Dolci". Difficile percorrere tutte le tappe del lavoro febbrile e creativo dell'intellettuale, privo di riferimenti politici e sindacali e soprattutto diverso per la posizione assunta a favore di Una rivoluzione non violenta (per citare il titolo di un'altra interessante raccolta di scritti pubblicata l'anno scorso, sempre a cura di Giuseppe Barone, per Terre di mezzo/Altra economia). In questa fase, segnata dalle attività assistenziali, dai digiuni, dalla fondazione di case-asilo, dalla pubblicazione di libri dal titolo emblematico, come Fare presto (e bene) perché si muore, Dolci prepara Banditi a Partinico, che esce poi nel 1955 presso Laterza. È con questo libro che braccianti, pescatori, pastori, vedove assumono la voce che è loro propria, mentre lo scrittore si riserva la funzione di filtro, nella ricerca di una lingua adeguata, lontana da ogni abbellimento, in cui il dialetto si mescola all'italiano. Le pagine vivono di uno spirito d'inchiesta alla De Martino, di quella che Levi aveva definito "la forza dei piccoli".
I Racconti siciliani vengono pubblicati nel 1963, dopo i fatti clamorosi dello "sciopero alla rovescia" (in cui i disoccupati protestano lavorando al ripristino di una strada) e al processo che segue alla manifestazione (in cui Dolci viene difeso da Calamandrei). Si tratta di narrazioni biografiche già comparse in altri volumi, in cui, evitando la deriva lirica, l'autore compie la scelta di un ascolto empatico e pieno di rispetto: tutti hanno una storia da raccontare, dal cacciatore di conigli e anguille fino al direttore dell'Ucciardone e alla donna che viene uccisa dal marito a causa di un mal di testa, che le ha impedito di preparargli il letto. Storie di miseria, sopraffazioni e barlumi di coscienza, in cui la superstizione si mescola alla malattia, alla fame, ai tentativi di fuga e di riscatto. Ne risultano ritratti di eroi delle battaglie popolari, vittime di esecuzioni mirate, come Accursio Miraglia e Placido Rizzotto, ma anche, come ha notato Vassalli, immagini di personaggi oscuri, di "gente che nel mondo ha contato poco o niente; che forse lascia in questo ricordo di sé, in questa riflessione sulla propria storia la sua traccia più dura".
Monica Bardi
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