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Anno edizione: 2009
Anno edizione: 2012
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Ho cercato di leggere il libro, ma troppo denso di particolari ed avvenimenti tali da renderlo un po' noioso. Mia modesta opinione: consigliato a chi conosce molto bene la situazione politica indiana.
Recensioni
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"Hai letto la recensione dell'ultimo libro di Arundhati Roy sull''Economist'?" mi ha chiesto un amico qualche tempo fa. Nel frattempo Roy si è premurata di scrivere un'elaborata replica alla recensione tutt'altro che benevola del settimanale britannico che, nelle sue vesti di sfrontato portabandiera del capitalismo neoliberale da più di un secolo e mezzo, non poteva certo dirsi entusiasta dell'incisiva requisitoria di Roy sul ruolo esercitato dalle politiche capitalistiche nella distruzione di milioni di vite, culture ed economie in India.
Tuttavia, a colpire il mio amico, più della gretta recensione dell''Economist' e della replica tutto sommato superflua della scrittrice, è stata la sconcertante sfilza di commenti seguiti alla pubblicazione in rete della recensione, commenti carichi d'odio per Arundhati Roy, molti dei quali scritti da indiani. "Santo cielo ha detto il mio amico, perché la odiano così tanto?". La risposta è semplice: Roy parla chiaro, dice verità accecanti alle classi medie urbane, guasta la festa e interrompe la manfrina secondo cui la miglior cosa capitata all'India da quando sessantadue anni fa si è liberata del giogo coloniale britannico è il ritorno a un'economia liberista, nonché l'avvento delle multinazionali e della grande finanza che strappano terre, fiumi e acque ai poveri. La classe media indiana detesta Roy perché la sua diagnosi ne minaccia lo status ben radicato di esecutore indiretto e fruitore diretto di un ordine sociale, politico ed economico di sfruttamento che tratta con crescente brutalità centinaia di milioni di poveri in India: un ordine che Roy prende coraggiosamente di mira e del quale sogna la fine.
"Paradossalmente scrive Roy nel saggio che dà titolo al libro l'avvento del libero mercato ha portato alla più riuscita battaglia secessionista mai combattuta in India: la secessione delle classi medio-alte, trasferitesi in un paese tutto loro, lassù nella stratosfera, dove si mescolano alle élite del resto del mondo. Questo Regno Celeste è un universo a sé, separato ermeticamente dal resto dell'India. Ha i suoi giornali, film, programmi televisivi, pièce teatrali edificanti, sistemi di trasporto, centri commerciali e intellettuali".
Che la sua sia una voce isolata nella più grande democrazia del mondo mi è sempre sembrato incredibile. Sarebbe logico credere che il più vasto movimento di liberazione nella storia dell'umanità abbia lasciato in eredità all'India moderna una tradizione intellettuale attenta e audace, rispettata da un gran numero di seguaci che avrebbero ritenuto lo stato, come pure le classi politiche e sociali dominanti, responsabili verso i poveri, i "milioni di senza parola" come li chiamava il Mahatma Ghandi (Mohandas Gandhi, Il mio credo, il mio pensiero, Newton Compton, 1992). Purtroppo la schiacciante maggioranza degli intellettuali indiani che firmano gli editoriali dei giornali, soprattutto inglesi, e prendono parte alle liti di pollaio negli studi televisivi è per lo più statalista e/o sciovinista, di rado o per nulla disposta a contestare l'intransigenza ultranazionalista della classe media su questioni cruciali come i rapporti con il Pakistan, il terrorismo con basi in Pakistan, la rivolta maoista nel cuore dell'India.
Sempre più spesso, pensatori senza peli sulla lingua come Ashis Nandy, Palagummi Sainath e Praful Bidwai si vedono negato lo spazio sui media, ed è in questo contesto che gli scritti di Roy assumono una rilevanza ancora maggiore. La scrittrice ha saputo infatti raggiungere ampie fasce di pubblico internazionale grazie al Booker Prize vinto nel 1997, alla successiva adesione al movimento Save the Narmada e, negli ultimi dieci anni, al gran numero di scritti su questioni di interesse comune: dal diritto alla terra alla corruzione della magistratura, la più sacra delle mucche dell'India; dalla totale prostituzione dei media, tanto più virulenti contro i poveri quanto servili con le forze governative, alla persecuzione disumana di centinaia di musulmani innocenti per effetto delle aberranti misure antiterroristiche indiane.
Molti di questi saggi (scritti nell'arco di sei anni, dal 2002 al 2008) mostrano una giornalista e commentatrice d'eccezione. Se l'analisi di Roy si regge infallibile sulle robuste pietre della logica pura, il suo giornalismo ha un vigore davvero insolito. Vaglia a uno a uno i "fatti" propinati dalle forze governative e li mostra per ciò che sono: subdola propaganda che mira a confondere l'opinione pubblica, riuscendoci, ancora una volta, per la prontezza con cui i media corporativi la ripetono a pappagallo. Il fatto che la maggior parte dei saggi sia stata redatta nell'infuriare delle controversie e non alla loro conclusione, come dissertazioni accademiche, rende i suoi scritti ancora più urgenti e coraggiosi.
Roy non ha davvero paura di nulla, nella più autentica tradizione del Mahatma Gandhi con il suo dire la verità a chi lo teneva schiavo: un metodo che continua a riecheggiare nei movimenti di liberazione di tutto il mondo. Il più sorprendente, e quindi il più significativo, è forse il saggio che contesta la versione fornita dallo stato su Afzal Guru, il "terrorista" condannato a morte dalla Corte suprema per il suo "ruolo" nell'attacco al parlamento indiano il 13 dicembre 2001. Nato come introduzione a una raccolta di interventi di avvocati, accademici, giornalisti e scrittori sulle controversie relative all'assalto al parlamento, lo scritto di Roy coraggiosamente suggerisce che la Corte suprema potrebbe non essersi comportata bene nel confermare la condanna a morte di Guru. Nelle retrovie, i media acquiescenti mandano in onda la "confessione" dell'accusato, ricusata dalla stessa Corte suprema perché inattendibile. "Le parole che vengono in mente sono complicità, collusione, coinvolgimento", scrive Roy nel saggio intitolato Breaking the News: Oltre la notizia, dopo aver articolato tredici domande che rilevano falle nel dossier della polizia sull'assalto al parlamento e accompagnano il lettore in una ricostruzione che rivela come Guru in passato fosse un agente delle forze di sicurezza dello stato del Jammu & Kashmir, con ciò sottintendendo la necessità di indagare su un eventuale ruolo dei servizi segreti nell'assalto al parlamento. "Non c'è bisogno di fingersi sconvolti all'idea, o di rifiutarsi anche solo di pensare e dire ad alta voce cose del genere".
L'importantissimo caso di Afzal Guru è argomento di ben tre saggi. Nel terzo (And His Life Should Become Extinct, "E si dia termine alla sua vita", non compreso nell'edizione italiana del libro), Roy, che io sappia, l'unica giornalista che si sia preoccupata di appurare se Guru abbia avuto un giusto processo, dice: "Per cinque mesi, dal momento dell'arresto fino al giorno in cui il suo nome è stato iscritto nel registro degli indagati, Mohammad Afzal, rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, non ha avuto nessuna assistenza legale, nessun avvocato difensore. Nessun principe del foro, nessun comitato di difesa, in India o Kashmir, e nessuna campagna di sostegno. Dei quattro accusati era il più vulnerabile". Fatto ancora più scandaloso, il vicecommissario della polizia di Delhi, Rajbir Singh (lo "specialista di encounters" ucciso nel 2008 in quella che fu ritenuta una trattativa immobiliare finita male) costrinse Guru a "confessare" il crimine di fronte ai media pochissimi giorni dopo l'assalto al parlamento. "Nel corso di questa 'confessione mediatica' accadde un fatto curioso scrive Roy. In risposta a una domanda diretta, Afzal [Guru] disse chiaramente che Geelani [il principale accusato, professore dell'Università Sar di Delhi] non aveva nulla a che fare con l'assalto ed era del tutto innocente. A quel punto, acp Rajbir Singh gli gridò di tacere e invitò i media a non riportare quella parte della 'confessione' di Afzal. E i media hanno obbedito!" (il corsivo è dell'autrice). Quale commentatore indiano denuncia con tale dovizia di particolari le connessioni tra forze di sicurezza governativa e mass media?
Non meno rilevante è il postulato di Roy sul secolarismo indiano e sulla posizione inconfutabilmente brutale del paese nella valle del Kashmir. Roy non esita a parlare di ascesa del fascismo in India nelle sembianze dell'ideologia nazionalista dell'Hindutva, e da quando tali forze si sono macchiate del massacro dei musulmani in Gujarat, nel febbraio-marzo 2002, ne scrive diffusamente. Ma soprattutto evidenzia come il Congresso e il Bjp siano di fatto due facce della stessa medaglia: lavorano per consolidare potenti interessi finanziari e intaccare i diritti della popolazione alle terre e alle risorse locali.
Esiste un solo metodo critico per valutare l'efficacia di un commentatore, e risiede nella qualità profetica che le sue parole acquistano con il passare del tempo. Ecco ciò che Arundhati Roy scrisse nel 2002, dopo il genocidio dei musulmani in Gujarat: "È questa la Hindu Rashtra, la Nazione Indù che tutti aspettavamo con impazienza? Quando i musulmani saranno stati messi al posto loro, latte e Coca-Cola scorreranno a fiumi nel paese? Quando il tempio di Ram sarà stato eretto, avranno tutti una camicia da mettere indosso e roti da mettere in pancia? Saranno asciugate tutte le lacrime? Si celebrerà un anniversario, nel marzo prossimo, o per allora ci sarà qualcun altro da odiare, in ordine alfabetico: adivasi, buddisti, cristiani, dalit, parsi, sikh?".
Negli ultimi anni, gruppi dell'Rss pieni d'odio anti-cristiano hanno manifestato nello stato del Karnataka e, l'anno scorso, in Orissa. Quest'anno il primo ministro Manmohan Singh e il ministro degli Interni P. Chidambaram hanno, a più riprese, definito terroristi gli adivasi di Chhattisgarh perché conducono contro lo stato indiano una delle più prolungate guerriglie al mondo. E persino mentre questa recensione va in stampa, i media indiani hanno iniziato ubbidientemente a riferire di possibili legami con il terrorismo di un gruppo di dalit del Kerala.
Ajit Sahi
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