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Lettura impegnativa, ma utile per chi vuole comprendere le trasformazioni a cui è sottoposto l'uomo di oggi, per essere adeguati al nostro tempo senza perdere, però, gli antichi valori che la tecnica sta trasformando in maniera vertigiosa. Secondo i nuovi valori, la vita avrà senso soltanto in funzione di ciò che sappiamo fare e non più in funzione di ciò che siamo.
Recensioni
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recensioni di Marchis, V. L'Indice del 1999, n. 12
La sfida di affrontare, con l'ardire di un trattato sistematico, il binomio psiche e techne, al tramonto del ventesimo secolo, non può non apparire entusiasmante. "Questo libro si propone di evidenziare la trasformazione che l'uomo subisce nell'età della tecnica" è la frase d'incipit della quarta di copertina. "La trasformazione", ma perché non "le trasformazioni"? E perché l'uomo "subisce" e non, invece, "agisce"?
Il libro si suddivide in sette parti che riguardano altrettante facce della tecnica: la sua simbologia, la genealogia, la psicologia, la fenomenologia, la semiologia, la sociologia e l'antropologia. Seguono un indice delle opere citate, l'indice degli autori e un indice analitico che è anche un breve glossario ragionato delle voci essenziali. Il tutto confezionato in più di ottocento pagine. Ora, con queste premesse la lettura attenta di un simile saggio richiederebbe tempi molto più lunghi di quelli imposti dalle esigenze editoriali di una tempestiva recensione, e come il gastronomo, nel redigere la scheda su un nuovo ristorante, non può divorare tutto ciò che è disponibile, forse la strada migliore per scoprirne i segreti è quella di riuscire a entrare in cucina, a curiosare dietro le spalle del cuoco, a rovistare anche tra le bucce e le briciole. Alcune presenze appaiono subito rilevanti: Humboldt, e Gehlen, Leibniz e Freud, Nietzsche e Spinoza, Marx e Platone, Heidegger e Aristotele. Altre un po' più defilate, ma pur sempre protagoniste.
Ma se si vuole leggere un saggio "come un romanzo", come invita a fare Daniel Pennac, allora sono proprio gli apparati, gli indici e le guide a diventare il bandolo di una quest che ben si potrebbe definire "senza fine". Quale potrebbe essere l'incipit, la keyword da immettere in un motore di ricerca, se il saggio di Galimberti potesse diventare multimediale? Al di là della falsificabilità (a cui non poteva mancare un richiamo), altre sono le domande che rimangono senza risposta per un lettore che non sia uno specialista. La "macchina" fa la sua comparsa soltanto in due passaggi, e a reggerne le sorti sono dapprima Marx, quindi, trecento pagine oltre, René Guenon, Günther Anders e Georg Simmel.
Psyche e techne sono concetti antichi, come lo sono quelli di métis, mechané ed empeirìa. Gli studi di Jean-Pierre Vernant, di Maurice Detienne, di Benjamin Farrington e del nostro Giuseppe Cambiano hanno a lungo argomentato intorno a questi temi. Certamente il mondo antico affascina e, nel caso del pensiero greco, contiene il genoma della nostra civiltà, ma bisogna anche trovare le ragioni per cui il nostro pensiero ancora oggi sente queste sue ancestrali origini vive e attuali. Potrebbe a prima vista sfuggire il fatto che il mondo dei filosofi e quello in cui viviamo sono la medesima cosa. Ci si aspetterebbe che la storia del pensiero intorno al concetto di techne potesse seguire anche le evoluzioni del contesto socioculturale in cui esso si è sviluppato, e, se nel libro di Galimberti l'aspetto antropofilosofico trova certamente un'attenzione precisa e seducente, ciò che manca, almeno per un lettore che vorrebbe imparare, è quel nesso con la realtà, quel sottile legame con il mondo concreto. Perché le macchine, demonizzate e colpevolizzate, continuano ad affascinare e ad ammaliare gli uomini? Come per ogni scritto, come ogni racconto cerco la morale. Cerco quel "deloi oti", quel "vuol dire che", che spieghi la cifra del saggio, che faccia comprendere se nel titolo del complesso libro di Galimberti è celato un binomio o un'equazione. "Il fatto che la tecnica non sia ancora totalitaria, il fatto che quattro quinti dell'umanità viva di prodotti tecnici [sic] non deve confortarci, perché il passo decisivo verso l''assolutismo tecnico', verso la macchina mondiale l'abbiamo già fatto". L'ottimismo per gli effetti di un benessere conseguito, di cui nessuno può dubitare, è invece rifiutato, e la separazione tra la conoscenza degli effetti e l'ignoranza delle tecniche che li hanno prodotti si proietta emotivamente su un piano mistico. Il pessimismo di una catastrofe tecnologica finale, o la speranza di una salvezza in extremis, perché "l'uomo è un animale non ancora stabilizzato" (Nietzsche), lasciano perplessi perché dimenticano alcune condizioni di contorno, essenziali per capire che cosa sia la tecnica.
Se da un lato nessuna specie vivente può essere considerata come un "sistema stabile", e basterebbe ciò a dimostrare la debolezza della seconda affermazione, dall'altra il millenarismo tecnologico reca in sé altri "errori", la cui spiegazione potrebbe essere soltanto psicologica. Se la domanda cruciale è "Che cosa la tecnica può fare di noi?" allora ciò significa che la tecnica è diventata per l'uomo "altro da sé", perché egli ne ha rifiutato il valore cognitivo. Separare le funzioni del fare e del pensare porta a situazioni che oseremmo chiamare schizofreniche.
Non si facciano ora troppe sottili differenze tra tecnica e tecnologia, perché si tratterebbe di usare rasoi affilati utili soltanto ai linguisti. Qui si sono, maldestramente forse, usati entrambi i termini per definire ciò che sino a poco più di un secolo fa veniva chiamato "arte". Arte, artificiale, artigianato, artefatto, artefice: tutti questi nomi hanno nell'ars la loro forma primigenia, che ha nello spirito pratico latino le sue forme ancestrali. Perché allora nelle pagine di questo libro, intorno all'arte non si trova null'altro che un fugace riferimento a Emanuele Severino?
Dopo la tecnica "del caso, dell'artigiano e del tecnico" forse si è già entrati nella tecnica dell'informazione e dell'immaterialità, ma ciò non toglie che il pensare non possa mai essere scisso dal fare, e chi ha l'ardire di voler "pensare" intorno alle macchine senza ungersi le mani di grasso non può tanto argomentare intorno a quelle che restano pur sempre, per molti, tante "scatole nere". L'opposizione tra pensiero e tecnica, che ha illustri numi tutelari da Heidegger a Severino, non mi convince perché trascura un aspetto cruciale. La techne non è soltanto una manipolazione, e non è neppure una poiesis, che lega all'etimo "poiein" ("fare, plasmare") sia l'arte del vasaio sia quella del poeta. La tecnica non è "uno strumento a disposizione dell'uomo" (pagine 345 e seguenti), come alcuni si illudono che dovrebbe essere, la techne è una forma di conoscenza che ha la colpa di essere troppo spesso "tacita". E troppi le fanno dire ciò che essa non ha mai detto.
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