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E lui - la coda tra le gambe Si dipartiva a un dove chissà dove E me tremante ancora E un pungolo sul cuore di sua tanta Che impudenza chiamavo: Ma tuttavia del pari nel timore Se per dolore mai non ne morisse - E non mi confortava il mio pregare: Preservalo Tu - dal male
«Non ero Giona sepolto nell’umido respiro dello squalo: fu un vapore d’uomini che m’accolse»: sin dalla Stazione di Pisa si disegna, coerente, una maditata parabola figurale nella poesia di Giovanni Giudici, che sa declinare – solidali – lo sgomento dell’esistere e l’anelito della vigilia: «Portaci sacco infinito infinitesimi giona» ( Lume dei tuoi misteri ). «La sola moltitudine perenne» trova voce in una parola che negli anni è – con crescente adesione – discesa negli interstizi dell’esserci: «Per questa sola differenza che c’è tra il vivere e l’esser costretti a vivere». La scrittura poetica di Giudici presenta qui le proprie Prove , in gran parte inedite: saggia e lascia misurare le ragioni di una fedeltà, assoluta sempre, alla voce che detta: «Un’altra voce oggi mi parla che non so , mi dice: lo sai perché resistere ». Non una protostoria dunque offrono questi versi, disposti ad annali, dei maggior volumi: bensí l’ ouverture di motivi che saranno nel tempo orchestrati in una coralità che fonde residui di memoria, anonimato quotidiano, parvenze oniriche: «Angoscia ci tormenta Di innocuo non veduto quotidiano». Nessun’altra poesia del nostro tempo ha saputo, come quella di Giudici, elevare a poema, con la parola minima della «veste carnale» il destino di ciascuno, far sí che una sola, unica, domanda: «(E fosse stato amore la mia sola verità di rimorsi?)» per compiersi trovasse «il nome nel quale consumarsi». Carlo Ossola
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In anni letterariamente conquistati allo sperimentalismo, o allo più sboccato populismo, Giudici si proponeva come una figura discreta, vagamente ironica e autoironica, lontana sia dall'immagine dell'artista maledetto sia da quella del vate che parla cripticamente: in grado di coniugare caparbiamente etica e poetica, realista in un'epoca di formalismo, capace di indignazioni ma anche di grandi utopie. La sua poesia è diventata via via più controllata stilisticamente, meno vibrante e più amara, ma comunque sempre ostinatamente lontana da quella metafisica delle parole e del pensiero che appare invece il tratto dominante di altri poeti del nostro 900. Poeta immerso nella fisicità, Giudici si mantenne cantore del reale e del corpo: anche la riflessione sulla storia fu per lui ricerca di individuazione, recupero del proprio passato, con una predilezione particolare per gli anni giovanili intorno alla seconda guerra mondiale. "Prove di teatro" raccoglie tutti quei versi che, composti tra il 53 e l'88, dovevano far parte delle sue raccolte maggiori e all'ultimo momento non sono stati compresi, per un eccesso di severità autocritica, o per una sorta di censura stilistica. Giustamente sono stati riproposti al pubblico come "prove" che contengono in nuce i motivi fondamentali della produzione già nota. Abbiamo perciò poesie d'amore e di memoria, poesie civili (come la splendida "Di lontano", dedicata alla rivolta ungherese del 56, o la rabbiosa "Anni affluenti"), e altre poesie divertite e irridenti ("Stopper"). Troviamo in queste pagine salvate dall'oblio versi memorabili, versi-talismani ("Era sempre difficile trovarti,/ lasciarti fu incredibile", "Per questa sola differenza che/ c'è tra il vivere e l'essere costretti/ a vivere"), attraverso cui la poesia sa pienamente svolgere la sua funzione, che è quella di dare emozioni a chi la legge. Anche se oggi va di moda tormentarsi sulle parole, forse perché ad esse non si sa più affidare nessun messaggio.
Recensioni
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GIUDICI, GIOVANNI, Prove del teatro, Einaudi, 1989
GIUDICI, GIOVANNI, Frau Doktor, Mondadori, 1989
recensione di Bardi, M., L'Indice 1989, n. 7
Contemporaneamente a "Prove del teatro", poesie composte fra 1953 e 1988, viene pubblicato un volume di prose di Giudici che abbraccia il periodo dalla metà degli anni sessanta a oggi. Leggere le prose dei poeti (si pensi ad esempio a quelle, diversissime fra loro, di Kurt Tucholsky e di Camillo Sbarbaro) produce spesso un effetto di straniamento; è l'idea stessa di prosa a venir messa in discussione: le regole tradizionali dell'eloquenza e della retorica sono lasciate da parte, sconvolti i nessi logici, ignorate le norme della subordinazione. Se la prosa viene costruita sulla scorta dei modi della poesia, nella ricerca della musicalità e della parola eletta, precisa, definitoria, allora è impossibile non provare il brivido del rischio e la paura ("Mi sono cacciato in un vicolo senza uscita, non sono abituato alla prosa, non posso sperare di riemergere senza perdere il capo del filo", p. 114). Del resto la materia sottoposta all'esperimento è ampia e variegata: il libro ha inizio con il diario di un viaggio in Scandinavia per poi aprire, prima di giungere ad altri itinerari mitteleuropei e italiani, infinite finestre sui ricordi della giovinezza, sulla figura del padre, i libri, i maestri, la vita militare. Giudici è al sicuro da ogni sospetto di autocompiacimento, accanito nella ricerca della precisione storica ("Anzitutto, dov'ero?... Ma dov'ero? continuo a domandarmi", p. 142), impietoso nell'autoritratto e nella critica alla società, ribelle e dissacrante nei confronti dei maestri del liceo e di quelli della Letteratura. Il filo rosso che lega le pagine del libro è proprio questo accanimento di Giudici nello strappare maschere, nel cercare il momento, il gesto, l'origine della creazione di quello spazio isolato, separato, doloroso "fra angelo custode e socialismo" ("Svolte II", in "Prove del teatro", p. 34), fra educazione cattolica e impegno politico nella sinistra. Il senso vivissimo della colpa ("Quanto abbiamo da farci perdonare, loro sono senza colpa, senza peccato", p. 59) ritorna nei versi di "Prove del teatro", unito a un desiderio di liberazione. Dai primi componimenti agli inediti, Giudici ripercorre la propria storia: dal periodo della guerra esemplificato dalla parabola del soldato sul treno ("Giallo Tersite") e dai versi della sezione "La stazione di Pisa" (1954) si giunge al tempo del lavoro, dell'ideologia e dell'impegno con "Un'altra voce" (1955). La scelta di Giudici è isolata, lontana dal consenso ("I compagni volevano ballare/ dicevano che è tutto per il bene/del partito, per fare soldi, tirare/ gente - altrimenti un giovane non viene", in "Dance, meat & vegetables"). Torna il senso dello sgomento e della morte nella sezione "Inverno a Torino", mentre in "Prove del teatro" (1967-1980) la coscienza dell'esilio e il sentimento della fine diventano scherzo, gioco, rappresentazione. I quattro componimenti che si collocano cronologicamente prima di "Salutz" sono i più densi e stupefacenti: il gioco del teatro, portato alle sue estreme conseguenze, si fa filastrocca augurale scivola nell'allucinazione e nel sogno ("Stalinista", come poi "Stopper", del 1988). Si approfondisce in definitiva la coscienza dell'isolamento e dell'estraneità, non senza rabbia e autoironia, come nei versi di "Anni affluenti": "Buona salute.../ a noi capaci di meraviglia/ a noi tuttavia scandalizzati/ buona salute alle minute opere/ non stanchiamoci di raddrizzare/ le zampe di questi cani...".
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