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Dettagli

1997
1 gennaio 1997
344 p., ill.
9788843540419

Voce della critica


recensioni di de Seta, C. L'Indice del 1999, n. 04

Il programma di questo volume della bella serie dedicata a "La pittura in Europa" ha per tema la produzione nelle isole britanniche: Michael Kitson, già direttore autorevole del Paul Mellon Center for Studies of British Art in Londra, ne aveva delineato le linee portanti. Il volume ora compare con l’introduzione e la cura non meno autorevole di Grigore Arbore Popescu: uno studioso che con perspicacia si muove con pari destrezza in ambiti non affatto omogenei di ricerca.

Come dice nell’introduzione secca e precisa Popescu, la storia della pittura inglese è un caso anomalo, perché – almeno fino al XVIII secolo – sarebbe difficile rintracciare sincronie e parallelismi così comuni allo sviluppo della pittura coeva nel vecchio continente. In sostanza l’insularità e il suo mito hanno rappresentato un carattere distintivo della produzione artistica anglosassone: ma già adottando questo aggettivo si rischia di essere imprecisi per la complessità storica e la natura frammentaria, almeno fino al Cinquecento, dell’arte in questo composito paese.

In effetti una sua prima e relativa unità la pittura in Gran Bretagna la conquista a partire da Enrico VIII e con l’istituzionalizzazione della chiesa anglicana: riformismo, puritanesimo, protoliberalismo borghese si pongono in sostanza come antitesi alla grande ondata controriformistica che pervade l’arte europea sotto la forte egemonia della chiesa di Roma.

Dunque, in antitesi alla Francia, ai Paesi Bassi e la tradizione romana, l’arte inglese trova una sua storia che vive tuttavia una lunga stagione durante la quale sono i grandi stranieri come Hans Holbein, Pieter Rubens, Antoon Van Dyck a dettare le regole grazie alla committenza della corona e di un’aristocrazia particolarmente incline a servirsi dei modi espressivi di un nuovo linguaggio. Ed è Popescu, in un capitolo centrale dedicato all’immagine del potere, a definire questi caratteri: attraverso i quali – malgrado la permanente opposizione tra la Corona e il Parlamento – la nazione artistica anglosassone conquista una sua identità assimilando dapprima la lezione dei grandi stranieri di cui si è appena detto e poi misurandosi in modo diretto con l’arte del continente.

È evidente che la resistenza all’offensiva del Barocco nel corso del Seicento lascia il segno, e alla corte di Carlo I e di Carlo II si ha per la prima volta un forte interesse per un mecenatismo aperto e spregiudicato. Agli esordi del secolo il conte di Arundel sente il bisogno di viaggiare nei Paesi Bassi, in Germania e in Italia avendo per guida e mentore il più grande architetto del suo tempo: con Inigo Jones inizia un serrato dialogo col mondo dell’Antico, ma anche con le maggiori manifestazioni dell’arte italiana dal Rinascimento al Manierismo. Collezionista di rara tempra, Arundel raccolse disegni di Leonardo e del Parmigianino, nonché una galleria di ritratti di Holbein. Daniel Mytens lo ritrae sullo sfondo della sua straordinaria galleria di reperti antichi: peccato che nel volume, ottimamente illustrato, questo dipinto (1618 c.) della collezione del Duca di Norfolk appaia in una riproduzione tratta da una pessima fotocopia, mentre il ritratto di James Hamilton ci fa capire quanto sia stata importante per Mytens la tipologia e la stessa qualità della pittura fiamminga e tedesca.

Un dipinto già perentoriamente "inglese" è certamente quello di John Souch che rappresenta Sir Thomas Aston al letto di morte di sua moglie (1635): una angolatura singolare dispone la figura dello sposo in piedi con la mano su un teschio – memento mori –, dall’altro lato, ma diagonalmente disposta, la donna morta in un letto tutto bianco, vero controcanto al nero che domina l’intera scena. In primo piano una congiunta che pensosamente ci guarda. In questa tela sono scompaginati tutti gli ordini di una misura classica, sia per composizione, sia per temperatura cromatica.

Non v’è dubbio che il ritratto, nelle sue più diverse articolazioni, assume un peso che è certamente Stimmung di un’arte nazionale che troverà in William Hogarth e sir Jousua Reynolds due grandi interpreti: i quali esemplarmente rappresentano la tipica antitesi dell’arte anglosassone del XVIII secolo. Tra coloro cioè che ritengono l’Europa, e l’Italia in primis, una sponda da cui difendersi (è
il caso di Hogarth, di Thomas Gainsborough, che non sentono affatto il bisogno di visitare l’Italia) e i figli del Grand Tour che – co-me Reynolds, Thomas Patch, Nathaniel Dance, David Hallen, Alexander e Robert Cozens e cento altri – viaggiano per l’Europa e risiedendo a lungo in Italia. Questa storia degli "inglesi italianati diavoli incarnati", come dice un antico detto insulare, viene narrata con mano sicura da Kim Sloan, che affronta l’argomento a partire dalla fondazione della Royal Academy: punto e a capo che rappresenta il consolidamento di una scuola nazionale inglese.

Ma se il ritratto aristocratico e borghese è un felice momento della pittura sei e settecentesca, l’altro polo tematico è costituito dalla pittura di paesaggio in cui si ritrova la stessa divaricazione tra chi vive il fascino della brughiera e della campagna inglese (da Gainsborough a Constable) come unico scenario, e chi – al contrario – sente l’urgenza di scoprire il Mediterraneo, la luce del suo sole, la malia delle città soprattutto italiane. In questa seconda famiglia spiccano pittori di straordinario talento – da Thomas Jones (qui sacrificato in tre immagini in bianco e nero, del quale nella stessa Gran Bretagna non è mai più stato ristampato dal 1952 il formidabile diario italiano) a William Turner. Questi inaugura la straordinaria stagione del romanticismo europeo a cui dedica pagine convinte David Blayney Brown. Certo che con Turner, Blake, l’anglicizzato Füssli l’arte inglese ha definitivamente recuperato i ritardi che oggettivamente aveva rispetto alla grande arte continentale: anzi, nell’ambito del paesaggio, della pittura visionaria e simbolista la pittura inglese assumerà un ruolo di primissimo rilievo, tant’è che Turner – a metà dell’Ottocento – divenne un paradigma di riferimento per quel gruppo di pittori che si diranno impressionisti.

La formula della collana vuole che si arrivi fino al XX secolo, ma è evidente – e non certo per imperizia degli autori – che il cambio di scala non rende agevole questo passaggio. Per finire bisogna invece sottolineare la rilevanza del saggio di Sergio Perosa che si occupa del rapporto tra letteratura e arti figurative con al centro il caso esemplare di William Blake poeta e pittore. In tal caso la trasgressione al piano istituzionale del progetto editoriale va sottolineata come una felicissima anomalia che auspico possa esser replicata nel prossimo volume annunciato, dedicato alla pittura francese.

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