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Carlo Michelstaedter traversò la vita con incauta rapidità: prese a pretesto una tesi di laurea per dare voce a una sua desolata certezza: stabilì, all’interno del suo ragionare, un filo tra Parmenide e una corrosiva critica della società che lo circondava: infine, nell’ottobre 1910, a ventitré anni, si uccise con un colpo di rivoltella. Percorso che ricorda quello di Otto Weininger, per l’intensità rovente dell’esperienza, per la tematica, per gli anni in cui si svolge. La persuasione e la rettorica doveva essere la tesi di laurea di un brillante studente goriziano a Firenze su questi due concetti in Platone e Aristotele. Divenne un testo anche formalmente inclassificabile, dove le due parole del titolo assumono significati del tutto peculiari. «Persuasione» è il tentativo, sempre vanificato dalla manchevolezza irriducibile della vita, di giungere al possesso di se stessi: «Persuaso è chi ha in sé la sua vita». «Rettorica» è l’apparato di parole, di gesti, di istituzioni, con cui viene occultata l’impossibilità di giungere alla «persuasione». Isolato nell’Italia del suo tempo, fedele all’ombra di Schopenhauer, Michelstaedter raggiunse in questo suo scritto la concentrazione vibrante che è data ai grandi precoci: «Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri, – finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente».
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La potenza e la particolarità di questa densissima tesi di laurea è già stata espressa nelle recensioni precedenti. Vale forse la pena rimarcare un carattere essenziale di questo libro del quale il lettore deve essere a conoscenza. È un libro, questo, che non vuole essere giudicato, tantomeno alla luce del suicidio del suo autore ventitreenne. È un libro che come pochi altri inizia e finisce mantenendo tra l'inizio e la fine la stessa intensità della prefazione e delle prime pagine. Non cede il passo al superfluo, è sempre nell'essenziale, non si lascia respirare. È un libro che ha una sua abissale profondità, e se non si è pronti ad affrontare un simile tuffo in acque scure e torbide e lasciarsi prendere dallo spavento di ciò che dall'abisso emerge è meglio rimandare la lettura. Michelstaedter è sceso "a guisa di palombaro" (Eschilo, Supplici) nell'ignoto, conscio della difficoltà, una volta riemerso, di dire ciò che ha visto - novello mito della caverna platonico. Eppure, per dire ciò che ha visto, Michelstaedter usa un linguaggio perfetto, attualissimo, equilibrato. La cifra stilistica di questa tesi è magistrale. Ciò detto, il libro ha tanto da dire, ma lettore deve essere preparato alla dinamite.
Scegliere come esergo della propria tesi di laurea le parole che Sofocle fa rivolgere da Elettra alla madre Clitennestra "so che / faccio cose inopportune e a me non convenienti"; riconoscere nella Prefazione che "quanto io dico è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il mondo abbia ancor continuato ogni volta dopo che erano suonate"; concluderla con la consapevolezza che all'umanità non verrà mai "il capriccio di uscir della tranquilla e serena minore età"; porre fine alla propria esistenza il giorno dopo la conclusione della stesura della tesi con un colpo di rivoltella a 23 anni. Leggere "La persuasione e la rettorica" non è facile. Non tanto per le difficoltà tecniche del testo in sé, pur così denso, nelle proprie 150 paginette, di citazioni greche, latine, tedesche, di allusioni profonde ai presocratici, a Socrate, Platone e Aristotele, alla filosofia moderna, e di riferimenti alla matematica per il concetto di limite; quanto piuttosto per la continua impressione di trovarsi di fronte a un uomo che, a inizio Novecento, ha incarnato perfettamente il senso greco del "tragico" e ne è stato, a seconda di come si preferirà credere, testimone fedele sino in fondo o vittima. La dicotomia presente sin dal titolo tra "persuasione" e "retorica" è la dicotomia di ogni epoca tra i pochi che "vivono" cercando il senso tragico dell'esistenza e affacciandosi sul baratro della verità e i molti che per ignoranza, per paura o per spirito più o meno egoistico "sopravvivono" accettando sempre più passivamente le regole della società nella quale sono immersi (coloro che in "Ossi di seppia" Montale definirà "gli uomini che non si voltano"). Carlo Michelstaedter è, non meno di Nietzsche, "inattuale", dunque, a distanza di un secolo, attuale e necessario, e la sua lettura una medicina lucrezianamente amara ma salutare. Magistrali le considerazioni sull'insegnamento come violenza se esercitato solo "secondo il programma imposto" (p. 188).
Per la seconda volta, il nostro gruppo ha affrontato la lettura de “La persuasione e la retorica” di Carlo Michelstedter, testo su cui ci eravamo smarriti alcuni anni fa. Confortati dalla conoscenza del bellissimo romanzo di Claudio Magris ‘’Un altro mare’’ (che rievoca le vicende svoltesi attorno a Michelstedter) e dalla attenta analisi psicologica di questo sfortunato giovane autore condotta da Perrella nel suo ‘’La clinica delle dipendenze”, speravamo di essere meglio attrezzati per la comprensione di questa brillante tesi di laurea. Come è noto, la tesi non fu mai discussa perché Carlo si suicidò il giorno prima della data fissata. Il saggio fu pubblicato postumo e giudicato uno dei migliori scritti di filosofia prodotti nei primi anni del novecento. Mentre alla prima lettura ci eravamo convinti che il suicidio del giovane autore fosse da considerare la conseguenza logica del suo pessimismo filosofico, adesso ci chiediamo invece se il suo nichilismo non derivi invece da un pensiero malato, che funziona per assoluti: o la persuasione o la retorica, come se la vita vera invece, non consistesse in una dialettica continua tra parti opposte, che possono coesistere alternandosi o sovrapponendosi, in una perenne oscillazione che però è sinonimo di umanità. E forse è proprio da questa assenza di umanità che trapela l’angoscia che permea tutto il libro e che ha spaventato alcuni di noi: è come se l’autore giudicasse il mondo dall’alto della sua posizione intellettualmente elitaria in cui l’altro, gli altri, sono completamente assenti. Il protagonista de ‘’L’altro mare’’, Enrico, l’amico di Carlo che ha cercato di metterne in pratica l’ideologia, trascorre tutta la sua esistenza in una solitudine tinteggiata di paranoia, nel disprezzo degli altri, ripiegato su sé stesso, come se alla fine pretendere di penetrare l’attimo presente in assoluta ‘’persuasione’’ impedisse poi di vivere, semplicemente. Il povero Carlo non ha avuto il tempo di articolare meglio il suo pensiero, esposto nel suo saggio con una serie di afo
Recensioni
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