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fra i libri scritti da ex brigatisti mi sembra uno dei più riusciti perchè non si limità a fornire una versione dei fatti, più o meno omissiva ma tenta, fra ricordi e testimonianze, di analizzare e approfondire i motivi e e le ragioni di fondo che hanno animato la nascita e la vita delle brigate rosse. Il punto di vista mi sembra interessante e non fa che confermare la necessità di discutere ancora di quegli anni, almeno in sede storica. Morucci è anche una buona penna anche se i capitoli-saggio sono più convincenti dei capitoli-romanzo.
nonostante uno stile accattivante il libro di morucci non sormonta la differenza che c'è tra il dire e il fare. nel testo l'autore invoca una riflessione ed un'analisi sugli anni di piombo al fine di capire e, in sostanza, porre una pitra tombale su giorni terribili. certo capire, comprendere, riflettere, ma ciò è possibile solo dopo che si è fatta chiarezza su ciò che è accaduto.nella testimonianza resa da morucci alla Commissione stragi il medesimo ha inanellato una serie di non so, non ricordo, mah... si predica bene e si razzola male.
E' forse l'unico libro veramente biografico di un EX Br che non cerca accondiscendenza, indulgenza o empatia sulla scelta "personale" di abbattere il SIM. Facile e piacevole da leggere per chi vuole conoscere le Br non dai proclami ma raccontate nella vita quotidiana...ricordandoci che, anche se rivoluzionari, erano comunque ragazzi figli di un'epoca particolare.
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Morucci divenne noto al tempo del sequestro Moro come il "postino delle br". Uscì tuttavia dall'organizzazione all'inizio del 1979 e fu uno dei primi dissociati all'inizio degli anni ottanta. In questa sorta di dialogo con il lettore e con se stesso, che prende l'avvio dagli anni della formazione culturale del protagonista, trascorsi fra Dylan, Van Morrison e De André, per passare in seguito al suo ingresso nella lotta politica, anche mediante i contatti con "Osvaldo" (Giangiacomo Feltrinelli), sembra di poter rilevare una preoccupazione centrale: la rivendicazione d'una dignità politica alle Brigate rosse, che Morucci ritiene un manipolo di "guerriglieri" comunisti rappresentativi d'un vasto malessere sociale, e non una banda di criminali politici arroccata su posizioni ultraminoritarie. Colpevoli, sì, di aver strumentalizzato gli operai solo per asserragliarsi in uno sterile partito rivoluzionario, poi vittima degli "ingranaggi trituranti della storia", le br ebbero, secondo Morucci, l'ardire di affrontar le cose "a muso duro".
Ed è, in effetti, quella stessa cultura dell'astrazione e dell'odio che le impregnò a dominare queste pagine, dove agli stralci lirici si alternano non solo le volgarità gratuite, ma anche gli attacchi personali, condotti senza mezzi termini, quando non con malcelato cinismo. Da un lato, al microcosmo allucinato dell'estremismo armato, con i suoi mille distinguo, sembrano far da contraltare "i politici", o addirittura "la politica". Secondo Morucci, essa "giustifica sempre l'omicidio". Dall'altro, tolti gli elogi a Craxi (per il negoziato su Moro e la fermezza successivamente dimostrata verso gli americani in occasione di Sigonella), a Cossiga, e soprattutto a Paolo Mieli, fautori, questi ultimi, dell'amnistia per i terroristi, la condanna è generale. I gruppi marxisti-leninisti? Dei "deficienti". Franceschini? Il suo è un fare "da sbirro". La città di Napoli? Come ha rovinato Maradona, con il sequestro Cirillo rovinò definitivamente le br. Moro? Un politicante, fino all'ultimo. Lama? Fece bene l'Autonomia a riservargli certi trattamenti.
Un larvato gigantismo megalomane ricopre poi certe pagine di ridicolo. Si compara il rapporto Franceschini-Moretti a quello fra Stalin e Trockij. Si richiamano Lenin, Begin, Arafat e, in genere, tutti i principali protagonisti delle grandi lotte di massa del Novecento. Per giustificare la tragica bellicizzazione dello scontro politico promossa dalle br, Morucci distorce inoltre la sentenza di Clausewitz sulla guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi, affermando che quest'ultima, tutto sommato, è come la guerra. Ecco anche perché viene talora a galla la convinzione di aver coraggiosamente infranto, pagando in prima persona, il velo d'ipocrisia di un'intera epoca. Dopotutto, le br, afferma l'autore, non furono "granché terroriste" e, se uccisero, lo fecero in quanto gruppo politico votato ai più alti obiettivi. Allo stesso modo in cui i partigiani, con uno "sconsiderato omicidio", assassinarono il filosofo Gentile, in una "lotta eroica e impari", noi, scrive l'ex br, "uccidevamo per imporre un modello futuro di rispetto della vita": "volevamo portare la vita e abbiamo portato la morte".
Tutto quel che è accaduto sarebbe dunque una semplice ironia della sorte. É vano aggiungere altro.
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