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Avrei dato il punteggio pieno se la parte scritta dal Maestrone fosse stata più lunga, perchè quando racconta in prima persona, con l'uso sapiente della parola che lo contraddistingue, è una festa per lo spirito, assolutamente appassionante e irresistibile. La parte dedicata alla produzione musicale è fatta molto bene ma con tutto quello che a proposito è stato pubblicato in precedenza non so quanto possa avere senso. Comunque a parte questo il libro merita veramente.
A lettura avanzata dell'autobiografia di Francesco Guccini, "Non so che viso avesse", balzata in cima alla classifica dei libri più venduti, a pagina 114 si legge: "Questo libro è un'autobiografia scritta a quattro mani. Francesco Guccini, per pudore e inusitata ritrosia, non ama parlare del proprio lavoro e soprattutto delle proprie canzoni, perciò dà la parola all'italianista, e amico, Alberto Bertoni". Si dice che gli editor e le case editrici spesso inventino gli scrittori, in vista del successo commerciale. Ora, a quanto pare, tolgono i loro nomi dalla copertina. Tutto ciò rende ancora più deludente e mistificante l'autobiografia del Nostro, scritta con uno stile piatto che procura noia a chi legge.
Un libro importante, direi la prima biografia antropologica, Guccini non parla di sé, ma dei suoi mondi e dei suoi luoghi, il mulino, Pàvana e i suoi avi, le balere modenesi, le osterie bolognesi; si sente la sua voce, ed è quella di un grande affabulatore.
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La copertina di un famoso album di Guccini, Radici, ritrae i parenti del cantautore nel 1901, tutti insieme, vestiti con una certa eleganza dell'epoca, davanti al vecchio mulino di Pàvana, sull'Appennino tosco-emiliano. Ci sono i bisnonni Maria e Francesco Guccini in primo piano, robusti e orgogliosi; compunte e serie le due figlie, intimiditi un poco i due maschi: il nonno Pietro e il più giovane prozio, Enrico, l'Amerigo della canzone. Francesco Guccini riparte da quella foto, dalle radici montanare, per raccontare la storia della sua vita e di una lunga avventura musicale e intellettuale, unica e coinvolgente.
Nato nel 1940 a Modena, la «piccola città, bastardo posto» dal quale «il fato in tre mesi» lo «spinse via», Francesco Guccini, figlio di una casalinga carpigiana, Ester Prandi, e di un elettromeccanico impiegatosi alle Poste, Ferruccio, montanaro dell'Appennino, ha trascorso l'infanzia a Pàvana, un piccolo borgo sull'Appennino pistoiese. Quella è la terra dei Guccini, dove oggi vive il grande maestro della canzone d'autore italiana, tra le telefonate dei giornalisti che lo intervistano per il suo prossimo concerto e le visite domenicali dei tanti fan, più o meno giovani, che vanno a trovare il loro "gigante", attendendo una sua "apparizione" davanti al portone della casa. Lì c'è il famoso mulino del "Chicon di Pàvana", il suo bisnonno mugnaio, cantato in alcune canzoni e raccontato in Cròniche epafàniche. Lassù scorre il torrente Limentra, che d'estate era il regno dei giochi dei ragazzi. Capire quel mondo, attraverso questo libro, aiuta a comprendere l'identità di Guccini «uomo di bosco e di fiume, lavoro e di povertà», ma anche «uomo sereno di dentro, come i pesci e gli uccelli che con me dividevano il cielo, l'acqua e la libertà». L'autore ci tiene molto a ribadire questa identità, fissandola negli scritti e rivendicandola nelle canzoni, come se quella fosse il bagaglio genetico e antropologico di una vita che poi gli ha dato tanto in termini di fama, successo e notorietà.
Dai castagni, dalle «foglie del cerro», dagli «intrichi del faggio», dagli odori di quella montagna tanto amata, la biografia scorre con naturalezza agli altri episodi chiave della vita dell'autore: il ritorno e l'adolescenza a Modena, poi la Bologna dell'università e delle osterie. Guccini, che a ventidue anni aveva già tentato le carriere di studente universitario, di giornalista e di cantante, con diversi gruppi dai nomi improbabili, dalla fine del '63 è a Bologna, in via Paolo Fabbri 43, quando si reiscrive all'università di Magistero e si mette in luce alle lezioni di Letteratura italiana. Poi le cose cominceranno ad andargli bene un po' in tutti i campi e nel '64 compone un trittico di canzoni che segnano la svolta: Auschwitz, è dall'amore che nasce l'uomo e Noi non ci saremo. Da quel momento in avanti ce n'è abbastanza per cambiare vita e Guccini nel '66 diviene il cantore simbolo della protesta, della ribellione giovanile esplosa nel '68. Nel '72 esce La Locomotiva, canzone ispirata a una storia vera di un «macchinista ferroviere» dei primi del Novecento che lancia la sua locomotiva contro un «treno di signori» per ansia di giustizia, che è divenuta negli anni a seguire l'inno libertario cult, quello che per antonomasia identifica Guccini, la chiusa "necessaria" scandita nei suoi concerti in un tripudio di cori e pugni chiusi.
Non so che viso avesse, la strofa introduttiva della Locomotiva, è il titolo di questa biografia: una carrelata ricca di esperienze, parole e aneddoti da un autore che negli anni ha saputo conquistare il cuore di tanti italiani, al di là delle gabbie ideologiche e delle distanze generazionali.
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