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La Holofcener ci consegna un "ritratto di donna" prodigiosamente corale, ogni persona con cui la protagonista si relaziona viene descritta con paritetica, democratica minuzia, ricchezza di sfumature e approfondimento psicologico. Il coprotagonista recitato da Gandolfini ne è uno dei molteplici magistrali esempi. Julia Louis-Dreyfus è presente in quasi tutte l'inquadrature, eppure il film non è focalizzato su di lei bensì sul percorso d'incontri e scontri che costellano la sua vita, come un Cicerone o un Virgilio (una Beatrice forse sarebbe troppo) attraverso il quale veniamo guidati nel perlustrare i marosi dell'esistenza. L'Eva di Julia non è bella né dentro né fuori, la regista la maltratta al punto da farci chiedere il perché di tanto impietoso accanito sadismo descrittivo. Poi irrompe la spiegazione e il furore svanisce lasciandoci in balìa d'un sentimento pacato e delicatissimo, la quiete dopo il tumulto d'una tempesta di rara ferocia. Quello rappresentato sullo schermo è il microcosmo d'un'umanità ferita poiché perdente e perdente poiché ferita, resa inetta dai tanti, troppi fallimenti privi d'un vero sensato motivo, preda delle razionalizzazioni e terrorizzata sino alla fobia dai traumi esperienziali, ondivaga fra la chiusura reattiva e la spavalderia del rilancio, il doppio squilibrio dell'isolamento autoimposto e dell'apertura scriteriata. Niente di nuovo, i tassonomisti del cinema hanno già coniato la categoria "mumblecore" per indicare questo genere di pellicole low budget su adulti afflitti da problemi nei rapporti interpersonali affrontati a suon di conversazioni e dialoghi interminabili, la rohmeriana "fenomenologia del quotidiano" ribattezzata circa mezzo secolo dopo, ma il tratto dell'autrice possiede una propria originalità e un'emotività che colpisce e lascia il segno. Un piccolo film col cuore grande.
Recensioni
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