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Indice
Questo libro sfugge energicamente a vecchie e nuove classificazioni. Volendo dare un'idea a chi legge, la forma è quella di un libero racconto, che combina esperienze dirette e indirette, riflessioni politiche, cronaca, miti, frammenti di storie mariane e molto altro. La scrittura è amichevole, mai gergale. Tante le persone e i personaggi (dall'operaia Irina Petrescu, cui si deve il titolo, a un bambino sensibile all'ingiustizia, da Franco Fortini a Paolina Leopardi a Bill Viola) che Muraro fa giostrare intorno a una dichiarazione di intenti: mostrare la difficoltà e insieme la grandezza e la fortuna di essere donna, per il mondo, per noi stesse: due fortune non necessariamente in contrasto.
Il risultato è un gran bel libro, alle cui pagine chiunque può affacciarsi e nessuno torna a mani vuote. A patto di non tenerle strette a pugno: le idee di Muraro di rado sono autoevidenti, vanno pensate, a volte pungono certe confortevoli nicchie mentali. Per apprezzare la grandezza di cui si parla in Non è da tutti, è utile metterla in prospettiva, nominando di sfuggita le accezioni che il termine ha avuto e che ha oggi qualcuna, almeno. L'eccellenza delle donne è stata un ingrediente classico della retorica politica, specie in tempi di guerre e di crisi: virtù femminili sbandierate, ricatto morale implicito, ché a nessuna venisse in mente di sottrarsi al lavoro di cura e di riduzione del danno. Così anche negli anni della ricostruzione. Con il risultato di gettare su quei comportamenti e valori l'ombra della resa ai desideri altrui.
Il libro va oltre e per quell'oltre c'è bisogno di uno scarto, di una "schivata". Intanto perché il pensiero va subito all'oppressione e all'ingiustizia. Muraro non le nega, scrive di espropriazione, di sofferenze, cita la poesia di Wislawa Szymborska in cui una donna, che ha accolto in sé la proiezione immaginaria costruita dall'amato, finisce per sentirsi davvero "immaginaria fino al midollo". Ma è diverso lo sguardo.
Ormai siamo abituati a riservare ascolto e compassione principalmente a chi incarna la figura della vittima, mentre per le donne si è fatta strada la posizione "falsamente femminista di considerare il sesso femminile come la grande vittima di una grande ingiustizia maschile". Una semplificazione che, oltre a spingere verso il ripiegamento o la contrapposizione, riproduce nel binomio offensore/offeso lo ha scritto esemplarmente Tamar Picht la dicotomia bellicista amico/nemico. Non da ultimo, tante donne sentono estranea la categoria di vittima, e non c'entrano la modernità e l'urbanizzazione, la pensavano così anche le vecchissime contadine che ho intervistato decenni fa.
Rigettare questa etichetta significa subire? Proprio no. Significa decidere di farsi giustizia in prima persona. Come le ragazze che negli anni sessanta hanno abbandonato i gruppi politici misti "per andare altrove, a parlare come piaceva loro, di quello che piaceva loro". Nessuno prima si era regalato un esodo così lussuoso, libero da modelli e strategie. I Padri pellegrini o gli uomini della Pallacorda erano progettisti di costituzioni, quelle giovani donne seguivano un desiderio, così urgente da far loro dimenticare il vecchio vizio femminile di mediare con se stesse prima ancora di arrivare alla mediazione con gli altri. Ne sono nati conflitti durissimi, "ma senza sangue", senza vincitori e vinti, senza la rissa intorno alla spartizione delle spoglie. Questa sì è stata grandezza (condivisa con la nonviolenza e con la sua regola del win-win), frutto di uno scarto dalle logiche politiche di allora, che ha richiesto uno scarto corrispondente per essere capito. Lungo il libro si incontra spesso questo doppio movimento.
Resta il fatto che riconoscere la grandezza chiede un impegno robusto, da svolgere in uno spazio trafficato, dove, esaurito il registro oblativo/sacrificale, altri modelli si candidano a rappresentarla. E, in particolari momenti, forse un solo modello, sia pure molto sventagliato, lo suggerisce la cronaca italiana. Oggi le immagini femminili sulla scena sociale e mediatica svariano dalle miss alle guerriere alle leader, dalle donne che perdonano chi ha ucciso il loro figlio, alle madri argentine, cilene, cinesi, russe, iniziatrici di una resistenza fondata sui ruoli familiari. Eppure da noi si è parlato per mesi di veline come fossero la questione principe, e così grave che per contrastarla alcune sono state indotte a ridividerci in donne per bene e donne per male; grandezze era la buona condotta.
Superato questo infortunio, si è commentata con preoccupazione un'inchiesta sulle donne di ventuno paesi, in cui le italiane risultavano le più numerose a sostenere che il lavoro è importante, ma non viene al primo posto; che le donne sono più adatte a occuparsi dei figli, gli uomini del lavoro fuori casa e della politica; che prendendosi cura della famiglia, di se stesse, di chi ha bisogno, ci si può sentire in un buon posto e a proprio agio. Queste italiane, sempre a corto di autostima, sempre le più arretrate! Ma rispetto a cosa? Già il concetto di arretratezza è discutibile, visto che presenta le differenze come deviazioni da una norma. In questo caso, poi, il ritardo è valutato su quel modello paritario/emulativo che negli anni sessanta spingeva Hannah Arendt a chiedersi cosa perdiamo mentre guadagniamo la parità. Muraro scrive invece che, se la grandezza di una donna viene assunta e agita, cattedra e cucina fanno poca differenza. Ecco il varco attraverso cui si può scoprire che le cose sono più complicate. Forse le italiane dell'inchiesta, pur desiderando lavorare e contare, non considerano (più?) dirimente o prioritario competere con gli uomini in campi tuttora a misura degli uomini, specie in politica: non solo perché si scontrano con quote maschili esorbitanti, ma perché hanno anche altro, "di meglio da fare". Per esempio seguire i figli, un compito oggi universalmente giudicato così difficile e così vitale che stupisce vederlo associato a un difetto di autostima: a un eccesso, se mai, e un po' troppo esclusivista; qualche uomo sa farlo bene.
Qui il discorso sulla grandezza si precisa. Quell'"altro" può essere molte cose magari lontanissime fra loro, ma ha sempre a che fare con l'attitudine "a stare dalla parte del vivente e a pagarsi con l'amore". Un'attitudine che nasce nel continuum mente/corpo e nel continuum donna/donna l'immagine del filo che unisce le generazioni femminili è più di una metafora. A fare differenza è il rapporto con la madre. Anni fa Muraro aveva indicato nella gratitudine per il riconoscimento da parte di lei la condizione per riconoscerci a nostra volta; alla parola madre aveva aggiunto "o chi per essa", ma la tesi rimaneva scoraggiante per chi di quell'accoglienza si sentiva orfana. Ora scrive che in fondo anche la fuga dal rapporto con la madre va bene, se sbocca nella pratica di alimentare la fiducia tra donne (fiducia è una parola cruciale in questo libro). Possono nascerne storie singolari, a saperle raccontare.
Muraro ha ragione quando imputa alla storiografia di aver ignorato i corpi; ne ha meno quando denuncia il suo rifiuto di tenere insieme fatti e esperienze soggettive (qualcuna/o ci ha provato). Ha di nuovo tutte le ragioni quando la accusa di aver rimpicciolito le imprese delle donne. Mentre lavoravo sulla seconda guerra mondiale, ne ho conosciuto alcune così sorprendenti che morirei dalla voglia di raccontarle anche qui, sebbene di molte protagoniste non sia riuscita a scoprire il nome. Le genealogie femminili sono bucherellate; ma, a parte il dispiacere per il torto fatto alle donne rimaste anonime, averne di così belle non è da tutti. Anna Bravo
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