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recensione di Boitani, P., L'Indice 1998, n. 3
Lo si prende in mano con un certo reverenziale timore, il monumentale volume che raccoglie i saggi di Thomas Mann. E per la mole del tomo in sé, e per l'aura sacra che circonda la figura e l'opera di questo scrittore, uno dei Signori della Letteratura della prima metà del Novecento (bisogna sempre ricordare che Mann nacque nel 1875, e che "I Buddenbrook" aprirono il secolo a puntino, nel 1901). E sarà bene, quel timore, conservarlo per un po', mentre si legge "Nobiltà dello spirito": ché l'autore non fa nulla per diminuire la distanza fra lui e noi, fra il suo sguardo sovrano di Lettore ottocentesco e quello, sempre più miope, del lettore postmoderno. In fondo, si tratta di praticare l'umiltà per un paio di settimane, ripagando così la meditabonda meraviglia e l'entusiasmo divertito o addolorato che i suoi romanzi e i suoi racconti avevano suscitato in noi tanti anni fa, durante lunghe, infervorate vacanze estive. Ciascuna di quelle narrazioni era divenuta, allora, un vero e proprio mito dell'immaginazione. E questo ci aveva già spinto ad affrontare "Nobiltà dello spirito", disponibile fin dagli anni cinquanta.
Ma questo "Meridiano" è una festa senza precedenti: raccoglie tutti i saggi di "Nobiltà dello spirito", vi aggiunge un notevole corpus di quelli già disposti entro gli "Scritti minori", e completa la torta con una buona dose di pagine inedite sinora in italiano. Il tutto, impeccabilmente curato e (non pesantemente) annotato, preceduto da un mirabile saggio di Claudio Magris e da una bella introduzione di Andrea Landolfi, con traduzioni riviste e bibliografia aggiornata. Il volume offre un panorama pressoché completo dell'opera saggistica di Thomas Mann, con l'eccezione delle cruciali "Considerazioni di un impolitico" recentemente curate e commentate per Adelphi da Marianello Marianelli e Marlis Ingenmey.
Nessun altro romanziere del secolo ha avuto tanta dedizione al saggio, alla critica, all'illustrazione del testo altrui quanto questo narratore metodico e ironico, questo narciso sconfinato, questo Gran Borghese, questo Tedesco integrale che si è trovato a dover vivere fuori dalla Germania, questo cieco conservatore illuminato poi dalle tragedie del tempo. Perché costui ha dedicato al saggio tanta parte della propria vita? Non sa, lo dichiara egli stesso, resistervi: accetta inviti a parlare in occasioni più o meno solenni; oppure abbandona la stesura di romanzi, cui pure tiene moltissimo, per scrivere pagine e pagine su Goethe; glossa infaticabilmente le proprie opere, dall'"Introduzione alla "Montagna incantata"" per gli studenti di Princeton alla "Genesi del "Doktor Faustus"". Perché? Per - sostiene Magris - dotare "I" "Buddenbrook", che tanto hanno scandalizzato e affascinato i buoni borghesi di tutta la Germania, di una "custodia". Il padre di Mann, il severo senatore di Lubecca, aveva infatti letto la "Nanà" di Zola nascondendone la copertina, in modo da non suscitare scandalo fra i suoi concittadini. "Forse la saggistica manniana rappresenta - scrive Magris - la custodia che permette di offrire quel grandissimo libro - e gli altri nati come sue inevitabili prosecuzioni - in una sapiente e seducente presentazione, che salva le regole della convenienza e salva il profondo rispetto per gli altri e per lo stesso autore". I saggi sono dunque opera di autoconservazione, di salvezza: e non fa certo meraviglia che siano "anche (forse soprattutto) un sottile e gigantesco commentario alla propria opera" e "il grandioso tentativo di salvare il salvabile di quella grande tradizione tedesca, traslocandolo in una generale concezione democratica, europea, occidentale, della civiltà". Non è un caso che attorno a Goethe, "ombra" implicita ed esplicita di Mann, ruotino ben 400 pagine del presente volume: come poteva il primo (e ultimo) Tedesco Europeo non reincarnarsi nel primo (e ultimo sinora) Tedesco del Mondo?
Leggere "Nobiltà dello spirito e altri saggi" diviene quindi un'esperienza eccitante. Non solo perché lo stile di Mann, la sua presentazione degli argomenti, delle personalità, delle opere, è sempre affascinante - perché insomma si ha l'impressione di fare con lui l'esperienza che egli ha descritto nella gustosa finzione di "Una traversata con "Don Chisciotte"" -, ma anche perché si assiste in essi all'edificazione laboriosa, delicata e appassionata del proprio Volto per i posteri. Leggendo i pezzi nell'ordine in cui sono disposti nel volume, vien fatto di pensare che Mann affronti e man mano "digerisca", assorbendoli e abbandonandoli, Lessing, Schiller, Kleist, Heine, Storm, Fontane, Hauptmann, Wassermann, Hesse, Kafka, Musil. Di ciascuno egli fornisce prima un quadro generale e un contesto; ne individua quindi una caratteristica, un aspetto che più lo colpisce, che più serve "a" "lui": poi, passa oltre. Non manca affatto né di perspicacia né di generosità, ma mira in ultima analisi a imparare e superare. Per esempio, nel commosso e ammirato saggio sul "Castello" di Kafka (1940), Mann riferisce, sulla scorta di Max Brod, del riso che prese autore e ascoltatori alla lettura kafkiana delle prime pagine del "Processo". Chiama quest'allegria "profonda e contorta" e aggiunge che senza dubbio dovette ripetersi alla lettura del "Castello". Quindi termina: "Se però si considera che il riso, il riso sino alle lacrime, che nasce da motivi superiori, è la cosa migliore che abbiamo e che ci resta, mi si darà ragione se considero le amorevoli ossessioni di Kafka tra le cose migliori della letteratura universale". Ebbene, quel riso "superiore" era proprio ciò che Mann, in quegli stessi anni, mirava a destare con "Giuseppe e i suoi fratelli", senza ricorso ad alcuna amorevole ossessione.
Che poi il Volto si componga di tante sfaccettature diverse, di tanti visi differenti fusi assieme e trascesi, risulta evidente dalle pagine che Mann dedica ai suoi autori preferiti. L'immagine di Goethe potrebbe quasi soverchiarlo, se non fosse la distanza temporale che li separa e l'immedesimazione completa che il successore pratica con il Padre. È significativo che a Goethe egli accosti, nel saggio del 1924-25, Tolstoj, con una serie di paragoni puntuali che riguardano la loro personalità e le loro esperienze più che non le loro opere: gli interessano i Volti, gli preme quella Natura totale che essi incarnano e arricchiscono (Dostoevskij, invece, va preso "con misura"). Sul profilo fondamentale di Goethe si innestano poi i ritratti dei quattro personaggi che più segnano l'animo stesso di Mann: Wagner, Schopenhauer, Nietzsche e Freud. Nulla di più commovente che leggere "Dolore e grandezza di Richard Wagner" (1933): con quale comprensione Mann intuisce l'"opera mondo" che Wagner ha inteso creare con l'"Anello" e che egli tenta di ricreare nella "Montagna incantata" o in "Giuseppe"! Quanta passione vibra nelle pagine dedicate all'idea nazionale, alla questione del germanesimo, alle contraddizioni e al dolore del musicista! Non dissimile è la partecipazione con la quale Mann si accosta a Schopenhauer, poeta della metafisica, artista della verità, umanista del pessimismo. Più complessa e dolorosa la relazione con Nietzsche. Il saggio maggiore a lui dedicato in questa raccolta, "La filosofia di Nietzsche alla luce della nostra esperienza", del 1947, tradisce, fin dal titolo, le intenzioni: non soltanto spiegare pianamente lo sviluppo del pensiero nietzscheano, ma anche farci i conti dopo la tragedia del nazismo e della seconda guerra mondiale, e farci quei conti come tedesco, come uomo di cultura, e come persona che a quel pensiero tanto deve. Infine, Freud: l'ammirazione di Mann per l'esploratore del "lato notturno della natura e dell'anima", per la psicoanalisi come "forma fenomenica dell'irrazionalismo moderno che si oppone inequivocabilmente a ogni abuso reazionario", è intensa. E come "I" "Buddenbrook"," La montagna incantata", "Doktor Faustus" sarebbero stati inconcepibili senza Schopenhauer, Nietzsche e Wagner, è ora sulle spalle di Freud che Mann costruisce l'estetica del piacere e del ri-conoscere che domina il "Giuseppe".
Non vorrei però che il lettore pensasse a un saggismo monocorde: l'attenzione di Mann alle altre letterature sembra, è vero, più limitata (benché "L'eros di Michelangelo" sia cruciale per capire non solo il grande artista rinascimentale, ma anche le pulsioni di chi ha creato "La morte a Venezia", e benché Mann non abbia, per esempio, esitazioni a comprendere la grandezza di un Conrad). Le poche pagine sul cinema mostrano un intuito e una sensibilità straordinari. E il volume si chiude in bellezza con la sezione dedicata agli scritti autobiografici, sulla propria opera e sul ruolo dell'artista. Qui, il Volto si mette a fuoco definitivamente: assorbiti e trascesi i visi di tutta una cultura, rimane solo quello di Thomas Mann. Il quale, presentando alcune "Osservazioni sul romanzo "L'eletto"", lo dichiara opera della vecchiaia non solo per gli anni del suo autore, ma anche in quanto prodotto di un'epoca al tramonto. "Spesso - egli scrive - la nostra letteratura contemporanea, nei suoi prodotti più alti e raffinati, mi appare come una presa di congedo, come un rapido rammemorare, un evocare ancora una volta e ricapitolare il mito occidentale prima che cada la notte, forse una lunga notte, e un oblio profondo". Ricorda allora come Hanno Buddenbrook aveva apposto un lungo tratto di penna sotto la genealogia della sua famiglia, giustificandosi con le parole: "Credevo che dopo non venisse più nulla". "Anche per me - conclude il vecchio Mann con tristezza, ma anche con l'orgoglio del Volto divenuto ormai classico -, anche per me è come se dopo non venisse più nulla".
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