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Brossura editoriale con bandelle, 155 pagine. Paginazione un poco ondulata ma peraltro in ottimo stato..
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Sono in crisi con la lettura purtroppo da anni. Ho comprato questo libro nella speranza di sbloccarmi. E ci sono riuscita. Enaiatollah è un bambino coraggioso, che deve combattere con le tante difficoltà che la vita gli mette davanti a partire dall'abbandonato dalla madre lo lascia al suo destino solo per il suo bene. Bellissimo libro che tutti dovrebbero leggere.
In questi giorni le immagini di genitori che all’aeroporto di Kabul si separano dai propri bambini per permettere loro di lasciare l’Afghanistan dopo la presa del potere dei talebani hanno fatto il giro del mondo. Immagini che scavano caverne dentro chi come noi assiste a distanza a simili atti estremi di amore e disperazione. Ho letto questo libro in cerca di speranza. Enaiat è uno spiraglio di luce nell’oscurità della follia umana. Da leggere assolutamente.
È la storia di un bambino che scappa dall'Afghanistan e arriva in Italia dopo un lungo viaggio durato 8 anni. È una storia di migrazione di un bambino da solo, inimmaginabile, disumana e violenta raccontata con le semplici parole di un bambino.
Recensioni
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"Il fatto, ecco, il fatto è che non me l'aspettavo che lei andasse via davvero
". Comincia così, nel segno dell'imprevisto, il racconto in prima persona del precoce apprendistato alla vita di Enaiatollah Akbari, bambino afghano allora dell'età (presunta, in assenza di anagrafe) di dieci anni. "Lei" è la madre, che, dopo averlo accompagnato in Pakistan nascondendolo, nei passaggi rischiosi, sotto le pieghe di un burqa indossato giusto per l'occasione, lo abbandona in un samavat, "magazzino di corpi e anime", uno di quei posti in cui lì si stipa la gente in attesa di trovare un modo per migrare non importa dove. Quella notte, prima di addormentarsi, l'aveva sentita stringerlo a sé più a lungo del solito, e chiedergli tre promesse: non drogarsi mai, non usare mai armi e non rubare mai.
Non sapeva che si trattava di un lungo addio per salvarlo dal suo destino di hazara, gli afghani "con gli occhi a mandorla e il naso schiacciato", forse discendenti dai mongoli di Gengis Khan, forse dai koshani, i più antichi abitanti di quelle terre, in ogni caso trattati come paria dagli altri. I pashtun, sunniti, avevano costretto il padre e altri hazara come lui, sciiti, al trasporto di merci dall'Iran ("per quel fatto sciocco che tra fratelli di religione ci si tratta bene") e, dopo che sul suo camion era stato depredato e ucciso dai banditi, pretendevano il figlio come schiavo per ripagarsi del carico perduto. La buca scavata in casa dove si nascondeva Enaiat (come veniva familiarmente chiamato) stava diventando troppo piccola. E poi c'era la minaccia dei talebani, che avevano fatto irruzione nella sua scuola e ucciso davanti a tutti i bambini, schierati nel cortile, il maestro che si rifiutava di chiuderla. Per i talebani, agli hazara spetta il Goristan: "Questo dicono. E Gor significa tomba". Era tempo di andare. La madre, separandosi da lui nel furtivo e coraggioso addio per tornare dai figli più piccoli, volle aprirgli uno spiraglio di futuro, la speranza di un altrove.
Da questa infanzia soffocata prende avvio la straordinaria storia non-fiction narrata nel libro, uscito ormai un anno fa, presto balzato tra i più venduti e già tradotto in varie lingue, ma non effimero per l'esemplare vicenda che testimonia nella forma di un Bildungsroman del nostro tempo. Alla voce del protagonista presta la sua penna di scrittore con discrezione, rispetto, efficace mimesi dell'oralità, palesandosi solo in brevi corsivi dialogati, Fabio Geda, già autore di romanzi (Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani, Feltrinelli, 2007; L'esatta sequenza dei gesti, Instar, 2008; e ora il più recente La bellezza nonostante, Transeuropa, 2011) sempre legati ai temi dell'adolescenza e della marginalità, cui lo ha reso sensibile la sua attività di educatore.
Rimasto solo, Enaiat intraprende la sua avventurosa odissea che dal Pakistan lo porterà in Iran, in Turchia, e di lì in Grecia e in Italia, peregrinando senza meta prefissata per quasi cinque lunghi anni. Fa i lavori più svariati, venditore di strada, muratore, operaio tagliapietre. Si muove nel mondo parallelo dei reclutatori di braccia e dei trafficanti di esseri umani. Trova amici e compagni di lavoro e di viaggio. Osserva incantato altri coetanei che possono ancora far volare gli aquiloni o dedicarsi al suo gioco preferito del Buzul-bazi, con un osso di pecora bitorzoluto lanciato come un dado. Dorme nei cantieri, nei parchi, nelle stalle, tra le rocce. Si mantiene fedele ai precetti della madre, che trasgredisce solo in un caso, tra la neve e il vento della micidiale scalata delle montagne iraniane verso la Turchia, quando gli compaiono d'un tratto di fronte "le persone sedute. Erano sedute per sempre. Erano congelate. Erano morte. Erano lì da chissà quanto tempo". A uno ruba le scarpe, "molto meglio delle mie. Ho fatto un cenno della mano per ringraziarlo. Ogni tanto lo sogno". Erano partiti in settantasette. Alla fine della traversata, durata ventisei giorni, ne mancavano dodici, morti nel silenzio lungo il cammino.
È una moderna epica narrata in modo asciutto da Enaiat, sempre con leggerezza, persino autoironia, mai vittimismo. Prende atto di come va il mondo, anche quando è duro e violento, con naturalezza. Attraverso gli occhi del bambino "alto come una capra" diventano visioni fiabesche quelle delle "mucche selvagge", basse e tozze, che "correvano come diavoli" in un bosco della Turchia, ma non erano che cinghiali mai visti prima. O la fantasticata presenza nel mare dei coccodrilli, che continua a far paura a uno degli amici con cui prende il largo su un gommone per la Grecia, dove non tutti arriveranno. Ci sono anche gli incontri quasi miracolosi con qualche figura inaspettata di "angelo", che gli offre un pasto, dei vestiti, un biglietto di viaggio, gesti solidali preziosi. Ed è con sguardo sociologico che ci racconta delle reti di afghani sparsi nel mondo, di come si debba andare a cercarli nei parchi delle città, ricavarne informazioni, far scattare un contatto attraverso la catena dei cellulari. E arrivare a Roma già sapendo che si trovano alla piramide dell'Ostiense, e il numero dell'autobus per arrivarci.
Enaiat approda infine a Torino, e la sua è una storia a lieto fine. Vi trova una nuova famiglia con due fratelli. Comincia la sua seconda vita. Frequenta la scuola e vuole lavorare nei servizi sociali, come l'accogliente funzionaria del Comune che l'ha preso in affidamento in casa sua. Aveva ventuno anni (forse) quando finisce il suo racconto degli anni vissuti "più al buio che alla luce" in terre sconosciute, cercando di rendersi "invisibile" nei doppifondi dei tir. È uno dei tanti nuovi cittadini del mondo. Che li chiama clandestini.
Santina Mobiglia
Ci sono storie che aspettano solo di essere raccontate e lettori che attendono solo di poterle leggere.
La storia di Enaiatollah Akbari è una di queste: troppo emozionante, troppo commovente, troppo “vera” per restare nell’ombra.
Lo scrittore piemontese Fabio Geda l’ha scoperta e trasformata in un libro. Centocinquanta pagine, raccontate in prima persona e tutto d’un fiato dal giovane protagonista, che ripercorre le tappe della sua odissea, da un piccolo villaggio adagiato sul fondo di una sperduta valle afghana all’Italia, dove ha deciso di fermarsi per riannodare i fili spezzati della sua vita.
Nascere in Afghanistan è preludio a un’esistenza difficile. Nascere hazara equivale a una vera e propria condanna. Sin dall’infanzia Enaiatollah sconta sulla sua pelle le discriminazioni riservate a quelli come lui, che, naso piatto e occhi a mandorla, appartengono a un’etnia minoritaria tenacemente osteggiata dalla maggioranza pashtun. La sua famiglia è minacciata e il padre costretto a lavorare per i trafficanti afgani fino al tragico incidente che gli costa la vita. I talebani chiudono con la violenza la sua scuola trucidando un coraggioso insegnante davanti ai suoi occhi. Per questo, quando compie dieci anni, la madre lo porta a Quetta, in Pakistan, nella convinzione che un futuro incerto in un nuovo paese sia meglio di un destino già segnato in patria. Enaiatollah è solo, per la prima volta lontano da casa, in un paese molto pericoloso. Con un’intraprendenza e una forza d’animo che è per noi difficile immaginare in un bambino della sua età, riesce a sopravvivere procurandosi lavoretti di fortuna. Quando la situazione diventa insostenibile fugge in Iran e lavora tra i clandestini nei cantieri edili e nelle cave di pietra. Da qui raggiunge la Turchia, con una marcia estenuante attraverso impervi valichi montuosi, e Istanbul, nascosto nel doppio fondo di un camion, una vera e propria tomba in movimento dove tocca la morte con mano. Poi una rocambolesca traversata in gommone fino alle coste greche e da lì, un po’ per caso un po’ per fortuna, in Italia.
Per anni la vita di Enaiatollah è una fuga continua tra poliziotti corrotti e violenti e trafficanti di uomini senza scrupoli. Ma anche in questo desolante panorama fanno la loro consolatoria apparizione la compassione e la solidarietà. Hanno il volto di un’amorevole vecchina greca, di un generoso ragazzo veneziano, di un’accogliente famiglia piemontese. I loro gesti di gratuita umanità dimostrano che non tutto è perduto, che è ancora possibile restituire la speranza a un’esistenza troppe volte ferita e umiliata.
Nel mare ci sono i coccodrilli è un libro che emoziona e commuove, ma fa anche sorridere. Nonostante la drammaticità dei fatti raccontati, mantiene sempre un tono lieve e pacato, con un pizzico di ironia, da cui traspare l’ottimismo che è la grande forza del protagonista.
È un libro che punta diritto al cuore e ci invita a riflettere. Dopo averlo letto non potremo più voltarci dall’altra parte e fingere di non vedere il carico di sofferenza nascosta dietro lo sguardo di molti immigrati clandestini. Sarà impossibile non interrogarsi su cosa possiamo o dobbiamo fare, come nazione e singoli cittadini, per evitare che odissee come quella del piccolo Enaiatollah Akbari si ripetano ogni giorno.
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