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Romanzo purtroppo incompiuto di Dickens. Si tratta di un giallo dalle atmosfere oscure. Nel corso dei vari capitoli sono disseminati indizi che fanno pensare ad un colpevole, ma di cosa? Dispiace non sapere di preciso come sarebbe stato il finale, Tuttavia la lettura risulta tutto sommato godibile.
Romanzo giallo e tenebroso, intrigante e pieno di suspense!! Peccato sia incompiuto per la morte di Dickens. Che cosa aveva in mente per il finale solo lui poteva saperlo. Impossibile capirlo. <3
Dopo l’affollamento del Nostro comune Amico, Dickens ci offre il suo romanzo più asciutto. Riesce a limitarsi ad una sola vicenda, tenebrosa quante altre mai, condotta con sobrietà e passione. Dato che si interrompe circa a metà per la morte dell’autore, e dato che è un romanzo giallo con (forse) un assassinio, ci lascia l’amaro in bocca per l’assenza della conclusione. Il gioco per i posteri è di proporre il finale più plausibile o strampalato (in rete ho trovato chi ha suggerito che l’assassino sia Hiram Grewgious, un tipico buonissimo e quindi per gli schemi narrativi di Dickens impossibilitato a stravolgere la propria personalità: un buono può fingersi cattivo, ma un perfido al più si mostra imbecille). La mia idea è che l’assassino sia comunque il sospettato, tutto ce lo vuol far credere, anche se mi rendo conto che è una conclusione fin troppo ovvia. Dickens, maestro di finali a sorpresa, aveva di sicuro in mente qualcosa che, pur non alterando i caratteri dei personaggi, l’avrebbe scompaginata. Una possibilità è che l’assassinio non sia stato compiuto, e che il presunto cadavere torni a smascherare il perfido rivale. Le quattro stellette sono uno scrupolo per l’incompletezza dell’opera.
Recensioni
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Non c'è un'estetica dell'incompiuto di sicuro riferimento, ma si possono tentare alcuni impressionismi alla luce del Mistero di Edwin Drood di Dickens. L'incompiuto era un rischio consapevole dei narratori vittoriani schiavi del sistema seriale, ed è statistico che molti abbiano lasciato alla morte un romanzo non finito. Sorge però la tentazione di spiegarlo non come un deprecabile imprevisto del sistema di mercato, ma come una specie di benefico boomerang. In che senso, insomma, Edwin Drood cambia le carte in tavola del romanzo dickensiano? L'illusione che fosse improvvisamente un romanzo breve si dilegua alla verifica del contratto editoriale. Resta il fatto che, per quanto poi la struttura potesse appesantirsi, il moncone che leggiamo dà l'idea di un intreccio più snello, alleggerito di comparse e di personaggi minori. E la commedia è meno ubriacante del solito, le gag meno brillanti e più compassate. Non si dirà che cessa o avrebbe potuto cessare la multifocalità proverbiale, ma che i poli, in Dickens abissalmente separati, sono subito più vicini e le trame plurime si riducono. La variante che non si può equivocare riguarda però il trattamento induttivo dei personaggi e della fabula e il potenziamento del grottesco simbolico. Dickens è il canonico narratore onnisciente che qui sembra abbandonare il timone e si finge in piena balia della trama che ha varato. Chi apra il romanzo rimane sconcertato da scene offerte senza un esauriente situazionamento previo, e dalla recidiva mancanza di antefatti per ogni personaggio introdotto. La stessa geografia si è velata, e Dickens, che si può sempre seguire come un antico Baedeker, è improvvisamente vago nella segnaletica.
Che Dickens non sia un realista puro è un luogo comune; qui ha saputo creare un'isotopia della mortuarietà che non ha riscontri salvo Bleak House. Un sottoromanzo vittoriano è dell'antica cattedrale, ma, lontano dalla garrula o anche subdola schermaglia per il piccolo potere locale del ciclo di Trollope, Dickens rimesta nel gotico della città-cattedrale con annesso cimitero, una specie di palude miasmica notturna e nebbiosa dai cui fumi spuntano creature larvali che compiono gesti e azioni largamente ipnotiche. Un concetto neoshakespeariano della psiche è provato dall'affollata, mimetizzata filigrana sotterranea degli echi. La divisione è tra gli sgominati dalla passione da un lato, e chi cerca, dall'altro, di volere, ma intendendo dar libero corso alla propria volontà si trova minacciato e con la strada sbarrata. Edwin Drood è un romanzo metafisico e agonico, scritto dalla premessa di un determinismo psichico inesorabile, e perciò anche di un lontano lascito calvinista, di una predestinazione soprattutto al male che si tenta di combattere in fondo sempre vanamente. La metafora ubiqua della fratturazione della personalità passa, in Jasper, da un valore di catacresi a uno letterale e diagnostico. Un giallo, dunque, ma uno studio al tempo stesso della nevrosi del medio Ottocento, come tutti i romanzi dickensiani finali, popolati da abulici, disadattati, omicidi veri e potenziali, o maniaci sessuali soffocati che sono al tempo stesso, come Jasper, dei "doppi" diurni e notturni. E non era doppio Iago, di cui Jasper è in certi momenti un sosia? Dickens ha suddiviso e estrovertito in Jasper, Drood e Neville le sue nevrosi ultime tarde, le sue volubilità e le sue malinconie, persino le sue fantasie omicide.
Marisa Sestito si confronta con precedenti traduttori di grido e appronta una versione creativa di cui si apprezzano le gustose cadenze regionali nostrane come equivalenti del vernacolo o dello sgrammaticato dickensiano, quali la colorita inflessione napoletana per la tenutaria della fumeria d'oppio. Si avverte veramente dietro alla traduzione, come preesistente, un saggio critico smembrato nelle note a piè di pagina, che rivelano la soluzione sua personale del rebus, condivisa da molti, che il colpevole dell'omicidio di Edwin Drood è John Jasper.
Franco Marucci
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