A diciotto anni dagli accordi di Dayton, firmati a migliaia di chilometri dalla Bosnia Erzegovina, le ferite del conflitto permangono in ogni struttura della società, a partire dalla scuola. La Costituzione della Bosnia, allegato IV degli accordi del 1995, ha delineato uno stato frammentato secondo le medesime logiche nazionaliste che condussero al conflitto. Stato unitario, suddiviso in due entità, la Republika Srpska e la Federazione croato-musulmana, a sua volta articolata in dieci cantoni, supervisionato da un Alto rappresentante della comunità internazionale, annovera quattordici governi e cento ministri. Tutte le cariche pubbliche sono divise per nazionalità, le due camere del parlamento sono occupate per un terzo da serbi, un terzo da croati, un terzo da bosgnacchi, i musulmani di Bosnia, la presidenza della Repubblica è a rotazione. Questa logica rigidissima, ereditata senza alcuno spirito critico dalle campagne nazionaliste prebelliche, crea discriminazioni fra i cittadini, rallenta i lavori delle istituzioni, comporta costi eccessivi e, soprattutto, influisce sui programmi scolastici e sulle nomine dei docenti. La programmazione avviene a livello centrale, ma una quota di discipline, le cosiddette "materie nazionali", letteratura, geografia e storia, sono definite localmente e dipendono dalle indicazioni e dagli umori dei politici. Il risultato è quasi paradossale. Nella Republika Srpska, a maggioranza serba, le scuole presentano uniformità di programmi e di utenza, mentre nella Federazione convivono scuole per croati e scuole per bosgnacchi, con fenomeni di vero e proprio apartheid a Mostar. Qui gli edifici scolastici sono riservati agli studenti dei due gruppi nazionali, che non si incontrano mai, grazie a orari separati o a ripartizioni delle strutture così sofisticate da far impallidire i labirinti della mitologia classica. Un tratto comune si ripete nei tre programmi: del conflitto degli anni novanta non si danno versioni distinte, semplicemente non se ne parla. Luca Leone, giornalista e scrittore, profondo conoscitore della Bosnia, la attraversa, incontrando studenti e insegnanti, giovani e meno giovani per cercare di capire come funzioni davvero il sistema scolastico e quale futuro si possa aprire agli studenti di oggi. Ne esce un ritratto polifonico, in cui ricorre lo scontento verso il presente e la quasi assoluta certezza che il futuro lavorativo e personale si potrà giocare soltanto all'estero. Non mancano oasi di feconda convivenza, come le scuole private cattoliche, ma gratuite e aperte a tutte le componenti nazionali, fondate nel 1994 dal vescovo ausiliare di Sarajevo Pero Sudar. Non mancano incontri felici, come quello con Aida Cikić, intelligente deputato al parlamento della Federazione, o quello con i ragazzi di Odisej, una ong di giovani di Bratunac, aperta a tutte le nazionalità e perciò invisa ai politici e alla polizia locale. Resta comunque un senso di sconforto per una terra dove neanche le cure mediche più elementari sono garantite e la disoccupazione è oltre del 40 per cento. Ma la Bosnia rappresenta anche un monito a quanti credono che le logiche nazionaliste possano essere vincenti. Un monito a chi pensa che basti dichiarare seimiliardesimo abitante della terra un bambino nato a Sarajevo il 12 ottobre 1999 per lavare la coscienza all'Onu. Venne addirittura Kofi Annan a conoscere il piccolo Adnan Nević ancora in clinica. Non gli portò fortuna né soldi quell'assurda nomina, solo un'effimera fama. Ora è entrato nel titolo del libro di Luca Leone e, forse, gli gioverà di più. Donatella Sasso
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