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«Sono nessuno o sono una nazione»: questo verso può valere come epigrafe per tutta l’opera di Walcott. Della quale si può dire, innanzitutto, che ci offre la forma più alta, oggi, della lingua inglese – forse anche perché proviene da quei luoghi dove «il sole, stanco dell’impero, tramonta», da una immensa periferia marina, i Caraibi, dove quel sole, tramontando, «porta all’incandescenza un crogiolo di razze e di culture» (Brodskij). «Io sono soltanto un negro rosso che ama il mare» dice un altro verso, ma (leggiamo altrove) uno i cui «occhi ardevano per la prosa cinerea di John Donne». Già questa congiunzione di elementi, questa somma di tribù divise nelle stesse vene, e insieme la stupefacente felicità verbale, la capacità di nominare le cose come in un remoto e scintillante «canto dei marinai» rendono unico Walcott e rimandano alla più sobria e precisa descrizione che a lui ha dedicato il suo critico, ma anche poeta, più congeniale, Iosif Brodskij: «Walcott non è un tradizionalista né un “modernista”. A lui non si adatta nessuno degli “ismi” disponibili e degli “isti” che ne conseguono. Non appartiene a nessuna “scuola”: non ce ne sono molte nei Caraibi, se si eccettuano quelle dei pesci. Si sarebbe tentati di chiamarlo un realista metafisico, ma il realismo è metafisico per definizione, così come vale l’inverso. E poi, è un’etichetta che saprebbe troppo di prosa. Walcott può essere naturalista, espressionista, surrealista, imagista, ermetico, confessionale – a scelta. Semplicemente, egli ha assorbito, al modo in cui le balene assorbono il plancton o un pennello assorbe la tavolozza, tutti gli idiomi stilistici che il Nord poteva offrire: adesso cammina con le sue gambe, e a grandi passi».
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Un libro di poesia con la p maiuscola. Bastano pochissime pagine per catapultarci in un "nuovo mondo", che non è il posto esotico sognato dai turisti nei loro grigi uffici occidentali, ma quello intimamente legato a un uomo che, per sua stessa ammissione, dichiara: "sono nessuno o sono una nazione". Tutta la mitologia viene spiata col binocolo in un'isola dove, a buon diritto, la mitologia potrebbe godere di una nuova edificazione. Il Bardo non è Omero, ma Derek Walcott, grandissimo amico di Brodskij, Zagajewskij e Seamus Heaney. "Troia, un bianco accumulo di cenere / vicino al gocciolar del mare. / Il gocciolio si tende come le corde di un'arpa. / Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la pioggia / e pizzica il primo verso dell'Odissea/".
Un libro da tenere sul comodino. Da leggere e rileggere. Un poeta troppo poco conosciuto, che andrebbe letto nelle scuole.
Nato «nell'incandescenza di un crogiolo di razze e culture», Walcott è un nero svezzato in un dialetto delle Indie Occidentali, professore a Harvard, scrittore in un elegante e limpido inglese. Nella sua opera si compenetrano visionarietà fantastica, meditazioni metafisiche, considerazioni sociali e, soprattutto, descrizioni della natura. Pittore di paesaggi raccontati attraverso azzardate metafore («Sabbia che vola, esile come fumo, / Annoiata, sposta le sue dune»), in ogni composizione avvertiamo quanto la sua sensibilità poetica patisca il fascino dirompente degli elementi naturali, in tutta la loro esibita potenza: vento, pioggia, nuvole, sole e luna si concretizzano tangibilmente, animandosi in modo magico e misterioso. Il mare, soprattutto, assume una personificazione a volte minacciosa a volte maternamente tranquillizzante («L'amen di calme acque», «le onde represse fanno il giro dei loro stazzi / come pecore matte», «Il mio primo amico fu il mare. Ora, è il mio ultimo»), e nello splendido poemetto semi-autobiografico "La goletta Flight" recupera temi ed echi narrativi conradiani, raccontando di una turbinosa traversata oceanica in cui il protagonista combatte con i suoi peggiori incubi e istinti, minacciato dall'equipaggio ignorante e ostile, e consolato dal ricordo della famiglia e del colpevole amore per una sensuale Maria Concepción. Ma la poesia di Derek Walcott non è solo descrittiva: è anche consapevole riflessione sulla sua inevitabile schizofrenia linguistica tra il dialetto creolo materno e la lingua inglese dei colonizzatori, tra la solidarietà per la sua gente nera che però non lo riconosce più e l'ambizione di appartenere a una ufficialità culturale che lo subisce con malcelata sopportazione. Tuttavia il poeta sa qual è il suo compito: vivere con pienezza di meraviglia, cantare i suoi versi, testimoniare: «io sono soddisfatto / se la mia mano ha dato voce al dolore di un popolo».
Recensioni
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recensione di Rognoni, F., L'Indice 1993, n. 8
A dispetto delle molte incertezze della traduzione (certo dovute alla fretta di fare uscire il libro a ridosso dell'assegnazione del Nobel), "Mappa del nuovo mondo" è una buona introduzione all'opera di Walcott. Pur tralasciando la produzione degli ultimi dieci anni e il poema autobiografico "Another Life" (1973), la breve antologia offre un campione abbastanza vasto perché almeno due linee di sviluppo risultino evidenti. Mi riferisco innanzitutto all'evoluzione del rapporto di Walcott con la tradizione poetica: si va dalle allusioni un po' meccaniche a Dante nel giovanile "Preludio" (1948), al raffinato 'pastiche' marvelliano di "In una notte verde" (1962), all'evocazione di padri spirituali come Joyce e Conrad in "Vulcano" (1976), alla grandiosa "ospitalità" di "La goletta "Flight"" (1979), che accomoda nel suo vitale e intraducibile 'patois', voci disperate come quella del poeta quattrocentesco William Langland e di Rilke, di Aleksandr Blok e di T. S. Eliot. Parallela a questa maturazione - che solo sommariamente può definirsi stilistica, implicando la scoperta e la coltivazione di un'intesa "umana", di dichiarata amicizia con gli scrittori del passato e del presente - è l'evoluzione del sentimento di Walcott, metodista d'estrazione medio-borghese e sangue solo in parte nero, nei confronti della comunità negra cattolica e miserrima in cui è cresciuto e che continua a rappresentare. La schizofrenia culturale di cui è paradigmatico un testo degli anni cinquanta come "Un lontano grido dall'Africa", scritto dopo la rivolta dei Mau Mau ("Dove mi volgerò diviso fin dentro nelle vene? / Io che ho maledetto / L'ufficiale ubriaco del governo britannico come sceglierò / Tra quest'Africa e la lingua inglese che amo? / Tradirle entrambe o restituire ciò che danno?"), è lentamente medicata in una poesia di soltudine e autoisolamento come "L'isola di Crusoe" (1965) e almeno parzialmente risolta nel grandioso finale di "La goletta "Flight"": "Ci sono tante isole! / Tante isole quante stelle a notte / sui rami di quell'albero dal quale si scrollano meteore / come frutti che cadono attorno alla goletta Flight. / Ma le cose devono cadere, e così è sempre stato, / Venere da una parte, Marte dall'altra; / cadono, e sono una cosa sola, come questa terra è una / isola in arcipelaghi di stelle. / Il mio primo amico fu il mare. Ora è il mio ultimo". Il discorso su Walcott andrà comunque ripreso quando anche il lettore italiano avrà a disposizione il poema "Omeros" (1990), l'antologia di "maggior respiro, i drammi, almeno un paio di acquarelli e i pochi ma essenziali saggi (fra cui la prolusione per il conferimento del Nobel).
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