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Anno edizione: 2010
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MANOMISSIONE DELLE PAROLE ( LA ) - LS
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Un saggio su quanto la lingua italiana possa essere "manomessa", soprattutto nelle questioni di carattere politico.
Ingredienti: una traccia inserita in un romanzo precedente come seme di questo libro, il frutto del lavoro di smontaggio e rimontaggio di parole svalutate o abusate, un florilegio di citazioni dalla A di Alice nel paese delle meraviglie alla Z di Zagrebelsky, una raccolta di termini da proteggere e coltivare. Consigliato: a chi ha a cuore l’importanza (morettiana) delle parole, a chi è sopravvissuto alla corruzione linguistica del berlusconismo.
Ottimo libro, da regalare ai pi? giovani per le generazioni a venire. Un libro che inizia il lettore, soprattutto quello vivente in un'era mediatica quale la nostra, a ragionare sulle parole e sulla loro potenza. E a carpirne i metodi sabotatori di delinquenti lessicali, psicologi manipolatori e lobbisti.
Recensioni
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"Il potere costituito su basi emotive è l'opposto della democrazia, che si fonda invece sulla discussione critica, sull'argomentazione, sulla ricezione di istanze molteplici". Con questa definizione (contenuta nel capitolo Il furto delle parole: democrazia e libertà) Gianrico Carofiglio fotografa, nel suo saggio-pamphlet La manomissione delle parole, la distanza che separa la natura del populismo autoritario da quella di una democrazia autentica; e questa distanza è segnata non poco dalla deliberata rimozione dal linguaggio del populismo proprio della parola pensante e raziocinante, e perciò costruttiva e dialettica, quella che gli antichi greci sinteticamente indicavano con il termine lògos, "parola" e "ragione" al tempo stesso.
Il populismo autoritario impiega invece il linguaggio come un'arma che punta diritta a colpire la "pancia" di chi ascolta (cioè a sollecitarne e a rinfocolarne le primitive pulsioni e le paure); si affida cioè prevalentemente a quella funzione del linguaggio che già gli oratori latini chiamavano movere ("toccare la sfera emotiva e istintiva") e finisce così per avere facile gioco, sul piano retorico-persuasivo, su qualsiasi contro-argomentazione mirata a docere, cioè a spiegare e convincere razionalmente l'ascoltatore. A questo scopo il populismo autoritario si avvale altresì di reiterazioni fraseologiche e lessicali, cioè di slogan preconfezionati da ripetere all'infinito, per plasmare e manipolare le menti come a colpi di martello su un metallo malleabile. La sua lingua è dunque (secondo le definizioni che Carofiglio mutua dalla scrittrice Toni Morrison) "morta", "raggelata", "impermeabile all'interrogazione"; cioè rigida, drammaticamente impoverita e totalmente refrattaria al confronto dialettico. Non per caso questi stessi caratteri si riscontravano già analogia inquietante nel linguaggio della propaganda dei regimi totalitari del Novecento.
Almeno nei primi capitoli il libro di Carofiglio è dunque essenzialmente, ed espressamente, una pacata ma preoccupata riflessione sulla patologia del linguaggio politico e mediatico dell'Italia dei nostri giorni. Ma questa riflessione si sviluppa con l'ausilio di un ampio corredo dossografico, ovvero attraverso un ventaglio di citazioni e di confronti che allargano la visuale storica del fenomeno spaziando fra molteplici autori che se ne sono occupati fino dall'antichità classica. Meritevole (perché ormai sconosciuto ai più) è in proposito la riproposizione del geniale passo dello storico greco Tucidide sulla "metonomasia", ovvero sulla manipolazione del senso originario delle parole a fini di potere e di prevaricazione durante la guerra civile di Corcira; ma entrano nel percorso argomentativo di Carofiglio molti altri autori, in un continuo movimento pendolare fra antico (Platone, Cicerone, Sallustio) e moderno (Primo Levi, Camus, Orwell, Steiner, Calvino e molti altri). Tra i capitoli più intriganti e inquietanti quello intitolato Lingua del dubbio e lingua del potere, dove si mette a fuoco la dicotomia fondamentale nell'uso del linguaggio, diviso tra una potenziale e benefica funzione euristica e conoscitiva (di se stessi e del mondo) e quella contraria, malefica e opprimente, che mira a soggiogare le coscienze attraverso l'impoverimento lessicale-fraseologico e la sclerotizzazione semantica di cui si diceva sopra.
Ma nella seconda parte del saggio Carofiglio va oltre l'analisi descrittiva e analitica del fenomeno, per proporre (in una serie di capitoli intitolati a parole chiave della sfera etico-estetica) una riflessione in positivo sul senso di termini come "vergogna", "giustizia", "ribellione", "bellezza", "scelta"; parole che vengono sentite e spiegate dall'autore come indicatori e guide per chi voglia attingere un senso pieno e dignitoso dell'esistenza. Parole come valori cardine di riferimento, insomma. Prima fra tutte, anche nell'ordine della trattazione, "vergogna", un vocabolo che rimanda a un sentimento (l'aidòs degli antichi greci) fondativo della civiltà occidentale ma oggi piuttosto latitante: "La caratteristica della vergogna scrive Carofiglio come di altri sentimenti, è di essere un segnale. (
) Se una persona non riesce a provare dolore, si accorgerà troppo tardi di essere malata. E lo stesso accade per la vergogna (
) La vergogna è un sintomo, e chi non è in grado di provarla rischia di scoprire troppo tardi di avere contratto una grave malattia morale".
Che il pamphlet sia stato in gran parte ispirato al suo autore dall'urgenza degli eventi pubblici italiani dell'ultimo ventennio è evidente e, non di rado, esplicito. Di fronte a quegli eventi, tuttavia, Carofiglio si atteggia con un distacco e un'onestà intellettuali che trascendono di gran lunga la stretta attualità, anche se non nascondono un'appassionata, si direbbe quasi "nobile" (se l'aggettivo non suonasse malinconicamente démodé nell'Italia di oggi) volontà di testimonianza civile.
Perciò questo libretto andrebbe conosciuto nelle scuole. Se è vero infatti che la parola è ancora lo strumento principale dell'educazione e della formazione critica delle coscienze, una riflessione metalinguistica come quella proposta dall'autore aiuterebbe non poco i giovani a smascherare e a contrastare l'uso distorto e "avvelenato", cioè deliberatamente diseducativo e corruttore, che media e politica ne fanno da qualche decennio a questa parte in casa nostra.
Paolo Mazzocchini
«La ragione di questo libro – a un tempo politica, letteraria ed etica – consiste nell’esigenza di trovare dei modi per dare senso alle parole: e, dunque, per cercare di dare senso alle cose, ai rapporti fra le persone, alla politica intesa come categoria nobile dell’agire collettivo». Gianrico Carofiglio ci regala un saggio alla Borges, dall’impianto filologico rigoroso, sull’uso del linguaggio e sulle sue conseguenze nella nostra società. La diagnosi dello scrittore, magistrato e uomo politico barese, è che oggi si usino poche parole, di scarsa qualità e che la lingua utilizzata meccanicamente sia sciatta, banale e manipolata dall’ideologia dominante. Dato che la narrazione dei fatti non è un’operazione neutra, ma un tipo di comunicazione che crea la realtà definendo il mondo con i propri termini, secondo Carofiglio occuparsi del tema della scelta delle parole assume oggi una valenza cruciale, fondativa. Il meccanismo, infatti, può avere degli esiti concreti temibili: si pensi alle parole come premessa e sostanza di pratiche manipolatorie, razziste, xenofobe o criminali. Ad esempio, «espressioni come giudeo, negro, terrone, marocchino attivano immediatamente l’ostilità, creano un altro estraneo e da respingere». Ed è questa interferenza sulla realtà, questa vera e propria creazione di realtà fittizie che ogni giorno, secondo l’autore, spesso inconsapevolmente, sperimentiamo. Questa manipolazione occulta del linguaggio che in molti casi si fa violenza, è il male al quale bisogna porre rimedio.
La strada indicata dall’autore passa attraverso la cura, l’attenzione, la perizia da disciplinati artigiani della parola, sia nello scrivere che nel parlare, ma ancor più nell’esercizio passivo della lingua: quando ascoltiamo e quando leggiamo. Carofiglio sottolinea come nei sistemi totalitari si assista sempre all’impoverimento della lingua, alla scomparsa delle parole del dubbio in favore degli slogan del potere, al trionfo lento, feroce e impercettibile dei luoghi comuni che impediscono di ragionare. Questo libro sembra volerci avvisare del rischio imminente e già in atto del degenerare del linguaggio pubblico e politico, nel quale termini come “popolo, libertà, amore, democrazia” sono stati progressivamente usurpati e svuotati di senso. Se è vero, come sta scritto nell’incipit del Vangelo di Giovanni, che «in principio era il Verbo», la Parola, è a questo logos che distingue l’uomo da tutte le altre creature viventi che bisogna ridare linfa vitale. Carofiglio lo fa nella seconda parte del libro, dove compie un’indagine su alcune parole chiave quali “vergogna, giustizia, ribellione, bellezza” e “scelta”, parole primarie, spesso gravemente svuotate. Il suo tentativo è dunque quello di riempirle, restituire loro vita, perché le parole impoverite di senso sono, come scrisse il filosofo francese Brice Parain, «pistole scariche».
Carofiglio ci conduce da un termine all’altro, utilizzando i riferimenti e gli esempi più disparati, letterari, politici, poetici, filosofici. Ci ritroviamo così a riscoprire il significato della parola “speranza” da un discorso di Barack Obama, di “bellezza” intesa come “saggezza” da un passo di Susan Sontag, o ancora di “scelta” come il contrario di “indifferenza” dalle pagine di una rivista di Antonio Gramsci. Chiudono il saggio una parte dedicata alle parole del Diritto e un corposo apparato di note bibliografiche, curato dalla ricercatrice di Filologia classica Margherita Losacco, senza le cui intuizioni molti spunti del libro non sarebbero stati possibili.
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