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Anno edizione: 2016
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Ho scoperto che la Semiologia, probabilmente, non mi affascinerà mai. Per uno sprovveduto in materia come me, il libro risulta essere per certi versi ostico e incomprensibile, per altri essenzialmente pieno di speculazioni oziose. Ovviamente il mio voto è assolutamente insignificante, non essendo in grado di giudicare questo testo. Ritengo questo libro adatto SOLO ED ESCLUSIVAMENTE PER GLI ADDETTI AI LAVORI.
Recensioni
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recensione di Marconi, D., L'Indice 1997, n.10
Forse per trovare la chiave dell'"Ornitorinco" (volendo leggere anche questo libro di Eco come un giallo) bisogna arrivare abbastanza in là, fino al sesto capitolo, "Iconismo e ipoicone". Qui Eco rievoca un dibattito degli anni sessanta-settanta, quello tra 'iconisti' e 'iconoclasti': dove gli iconoclasti non erano i seguaci del patriarca Giovanni (non a caso detto Grammatico), ma erano quei semiotici che sostenevano che il rapporto tra ipoicone (=segni raffigurativi) e oggetti raffigurati era essenzialmente "convenzionale": è in forza di un sistema di regole culturali che un quadro viene interpretato come immagine della scena che raffigura, e si dice poi che "assomiglia" alla scena; e non, invece, in virtù di una qualche corrispondenza naturale e oggettiva, come sostenevano gli iconisti. Eco era iconoclasta: sosteneva allora, ad esempio, che il disegno di un cavallo non condivide nessuna delle proprietà del cavallo reale, perché l'unica proprietà del disegno - la linea nera di contorno, in cui consiste il disegno - è una proprietà che il cavallo reale "non* possiede. Osservazione brillante ma capziosa: certamente i cavalli reali non hanno contorni neri, ma il punto è che l'effetto percettivo del disegno è simile a quello del cavallo reale. Per cogliere l'aspetto oggettivo della relazione di raffigurazione non bisogna guardare a proprietà come il nitrire del cavallo e l'essere vergato con matita HB del disegno, ma alle loro proprietà causali rispetto alla percezione: "Un contorno è uno stimolo in qualche modo equivalente ai tratti in base a cui il sistema visivo normalmente codifica le immagini degli oggetti nel campo visivo", come dice ora Eco citando Hochberg.
Quelli del dibattito sull'iconismo erano tempi culturalistici e relativistici, in cui anche il pancreas (per non dire della schizofrenia) era un "oggetto culturale", e l'unico modo politicamente corretto per attaccare una posizione così controintuitiva come quella degli iconoclasti era accusarla di "idealismo". Ora i tempi sono cambiati: sono tempi cognitivisti e naturalistici, Marx e Roland Barthes sono stati sostituiti da Darwin come "clavis universalis", e anche il fatto che ci piacciano i fiori viene ricondotto al suo valore adattativo per i nostri antenati del Pleistocene (Steven Pinker in "L'istinto del linguaggio", 1994). Anche Eco è cambiato ("et nos mutamur in illis"), benché sostenga trattarsi solo di uno switch gestaltico, in cui ciò che prima era sullo sfondo viene portato in primo piano. E non è cambiata solo la sua posizione sulle icone, di cui ora riconosce il fondamento naturale (prima che segno, le (ipo-)icone sono stimoli percettivi che creano l'effetto di essere di fronte all'oggetto); è cambiato in generale il suo atteggiamento nei confronti del linguaggio e del rapporto linguaggio/mondo. In questi anni, Eco ha avuto la pazienza e direi l'umiltà di acquisire una letteratura - quella delle scienze cognitive, tanto per capirsi - che era estranea e, checché egli ora ne dica, in parte antagonistica rispetto alla sua formazione e alle idee che professava. Avendo compiuto un percorso simile al suo nel punto d'arrivo (anche se con un diverso punto di partenza), so bene quanto sia costoso, e credo che Eco - il quale poteva starsene tranquillamente sdraiato sui suoi allori semiologici, oltre che su tutti gli altri - vada molto elogiato anzitutto per aver scelto di affrontarlo.
In ogni caso, giudicando dall'"Ornitorinco", i benefici sono stati maggiori dei costi: le attuali posizioni di Eco sono complessivamente più convincenti di quelle che sosteneva in passato. Questo mio giudizio è certamente viziato di parzialità, perché ho pubblicato qualche mese fa un libro largamente convergente con quello di Eco sia nella tematica, sia nelle tesi che vi sono difese (a scanso di equivoci: è un libro che Eco conosce e cita e discute a più riprese, guardando più a ciò che ci divide che a ciò che ci unisce, come è giusto fare nella discussione scientifica). Comunque riscalda il (mio) cuore vedere Eco occuparsi delle "basi materiali della significazione", e sentirlo riconoscere che "non si era detto con sufficiente energia [ma in verità non si era detto affatto] che fa parte del significato di un termine anche una serie di istruzioni per identificare il referente". Eco vede queste istruzioni codificate in una struttura mentale che chiama 'Tipo Cognitivo' (=TC). Il Tipo Cognitivo è ciò che consente il riconoscimento (di un gatto, del mio amico Giorgio, della "Quinta" di Beethoven): esso è basato sui tratti percettivamente rilevanti di un oggetto o di una classe di oggetti; è ciò che i sudditi di Montezuma, che non avevano mai visto un cavallo, giunsero a elaborare - come, non lo sappiamo - in seguito alla loro interazione con i "conquistadores" spagnoli, o meglio con i loro cavalli. Il TC è alla base dell'applicazione del linguaggio al mondo: a una struttura di riconoscimento (un TC) è associata una parola che designa gli oggetti che il TC consente di riconoscere: nel caso degli Aztechi, "maçatl". Dire che "maçatl "designa i cavalli è dire che la parola è associata a una struttura cognitiva che riconosce cavalli. Dunque l'interfaccia tra linguaggio e percezione è il cuore della semantica - o almeno, di una semantica che voglia occuparsi di ciò che i parlanti sanno, e sanno fare, per il fatto di conoscere un linguaggio - e su questo sono del tutto d'accordo con Eco. Tuttavia, egli va troppo oltre quando identifica senza residui con i TC sia i concetti, sia i significati. Come ha fatto vedere, tra gli altri, Georges Rey, ai concetti sono attribuite molte funzioni: i concetti non sono solo algoritmi di riconoscimento. Per esempio, possedere un concetto è - tra l'altro - essere capaci di compiere certe "inferenze" ('Se qualcosa è un cavallo, allora è un animale') che non passano attraverso operazioni di riconoscimento. Inoltre, nel caso di molte parole (tipicamente i termini artefattuali come 'matita' o 'televisore') la nostra competenza semantica consiste in molto di più del possesso di algoritmi di riconoscimento: riconosco una matita in base alla sua forma caratteristica, ma so anche che la matite servono a scrivere, che contengono un'asticciola di grafite detta 'mina' e che possono essere temperate: tutte informazioni - specialmente la prima - in mancanza delle quali sarei dichiarato semanticamente incompetente, e che tuttavia non sono pertinenti al riconoscimento delle matite.
Eco cerca di parare queste obiezioni, di cui credo sia consapevole, sostenendo che i TC - strutture mentali, interne, "private" - hanno una controparte linguistica pubblica, il Contenuto Nucleare (=CN). I CN sono interpretazioni linguistiche dei TC: il TC associato a 'cavallo' viene "tradotto" in 'animale, quadrupede, ecc. ecc.'. Questo è, a mio giudizio, un errore: le informazioni che sono alla base del riconoscimento sono altra cosa rispetto alle informazioni linguistiche che Eco ha in mente. Come osservò molti anni fa Gareth Evans, alcuni dei tratti pertinenti al riconoscimento sono, ad esempio, rapporti tra le distanze tra certe parti specificate di un oggetto; le informazioni su questi tratti pertinenti sono in qualche modo codificate nel sistema nervoso, ma non sono accessibili al soggetto, né utilizzabili in maniera consapevole. Il punto non è che queste informazioni non siano verbalizzabili: il punto è che una loro eventuale verbalizzazione non sarebbe "riconosciuta" dal soggetto, e avrebbe poco a che vedere con le informazioni esplicite, coscienti e pubbliche contenute nei CN di Eco. Del resto, la non corrispondenza tra TC e CN emerge anche da considerazioni di senso comune: noi riconosciamo una classe di alberi - mettiamo, gli abeti - in base al loro aspetto caratteristico (un certo "pattern* morfologico complessivo), ma quando vogliamo "insegnare" a qualcun altro a riconoscerli, e usiamo il linguaggio per farlo, facciamo riferimento a caratteri come la forma delle foglie, l'altezza media, l'habitat tipico, che non sono quelli su cui si basa il nostro riconoscimento (anche se "potrebbero "esserlo, e infatti l'addestramento mediato dal linguaggio funziona; ma, se lo fossero, il nostro riconoscimento sarebbe molto meno efficiente di quello che è, come dimostra il caso di quei pazienti cerebrolesi che riconoscono gli oggetti controllando che essi ab-biano le caratteristiche specificate da una definizione, che essi padroneggiano, mentre hanno perduto la capacità di riconoscimento "diretto").
Eco identifica i TC con gli "schemi" di Kant (da cui metà del titolo del libro); ha ragione, nel senso che Kant era stato il primo a vedere il problema della mediazione tra linguaggio e percezione, e aveva compreso che questa mediazione dev'essere di natura "procedurale". Se pensiamo che sappiamo applicare la parola 'gatto' perché alla parola è associata nella nostra mente qualcosa come l'immagine di un gatto, non andiamo da nessuna parte: ogni immagine dev'essere "applicata", e, come ha osservato Wittgenstein, e Putnam dopo di lui, nessuna immagine include la regola della propria applicazione. Dunque alla parola 'gatto' dev'essere associata non l'immagine di un gatto (neanche quella del "tipico gatto", qualunque cosa sia), ma un "metodo" per identificare cose che abbiano le caratteristiche specificate dal concetto di gatto; e questa è l'idea kantiana dello schematismo. Non è chiaro in Kant (e neanche nel libro di Eco) se identificare gatti nella percezione sia lo stesso che costruire immagini di gatti nell'immaginazione. Sembra che debba trattarsi di due operazioni distinte, perché immaginare un gatto non è "vedere" un gatto, né vedere un gatto consiste nell'immaginare, per così dire, "proprio quel" gatto che ci è dato percettivamente.
E l'ornitorinco, povera bestia? L'ornitorinco è un esempio non tanto della costruzione di un nuovo Tipo Cognitivo per un nuovo tipo di oggetti (per questo bastavano i cavalli di Montezuma), quanto della "contrattazione" di un contenuto concettuale. Gli zoologi hanno a lungo esitato e discusso sulla classificazione dell'ornitorinco, curioso animale con becco come d'anatra, zampe di talpa, coda di castoro, che vive sott'acqua ma respira aria: era un quadrupede, era un mammifero, era oviparo? Per esempio, l'ornitorinco (femmina) ha ghiandole mammarie ma non veri e propri capezzoli, sicché il piccolo lecca il latte essudato dall'addome della madre: un animale così è un mammifero? È un problema che non può essere risolto applicando un concetto già dato, ma solo "decidendo "di ampliarne o invece restringerne l'estensione. Nella storia tassonomica dell'ornitorinco si intrecciano problemi empirici (fa le uova? la femmina secerne latte?) e problemi di delimitazione dei concetti: Eco sottolinea i secondi (ma riferisce, correttamente, anche dei primi) perché vuol far vedere che i contenuti concettuali, TC o CN, sono elastici come chewing-gum, e dipendono, tra l'altro, "dalle civiltà e dalle circostanze".
Dunque Eco non rinuncia a dare alla cultura ciò che le spetta, ma la fa intervenire su un contenuto già dato alla percezione: "Prima di decidere che il sole è un astro, o un pianeta, o un corpo immateriale, che gira intorno alla terra o sta al centro dell'orbita del nostro pianeta, c'è stata la percezione di un corpo luminoso di forma circolare che si muove nel cielo, e questo oggetto è stato famigliare anche al nostro progenitore che forse non aveva ancora elaborato neppure un nome per designarlo". Benissimo. Ma allora perché, poche pagine prima, egli sostiene che "il consenso percettivo nasce sempre da un previo accordo culturale"? Non si è d'accordo nel riconoscere un uovo se non ci si è "messi "d'accordo su come usare la parola 'uovo'. Residui antinaturalistici? Può darsi; a me sembra più probabile che Eco non abbia distinto con sufficiente cura tra "riconoscimento" e "denominazione". Quella di riconoscere il rosso è una capacità, probabilmente innata, della nostra specie, che possiamo immaginare realizzata più o meno allo stesso modo in tutti i suoi membri normali; "chiamare" 'rosso' il rosso è un'altra faccenda, una faccenda culturale, tanto che ci sono lingue che non hanno una parola per il rosso.
Insistendo sul carattere contrattuale dei contenuti concettuali, Eco ne sottolinea vari aspetti importanti. Per esempio, la variabilità individuale: il concetto di gatto dello zoologo è diverso da quello del profano. La non delimitabilità: che un'informazione sia considerata costitutiva del concetto di gatto piuttosto che semplicemente un'informazione sui gatti dipende da molti fattori e non è stabilito una volta per tutte (in questo senso, non c'è un confine stabile e universale tra dizionario e enciclopedia). Tuttavia, egli finisce per dare l'impressione che, per qualche ragione, "abbiamo bisogno di "metterci d'accordo sul contenuto dei nostri concetti. Non è così : salvo che in rari casi, noi interagiamo benissimo pur avendo concetti "diversi" (TC e CN diversi) di gatto, di oro, di tavolo e di tutto il resto. Quello che conta è che le nostre pratiche referenziali e inferenziali siano "convergenti": cioè che io chiami 'gatto' grosso modo gli stessi animali che tu chiami 'gatto' (anche se in certi casi potremmo divergere), e che tu e io condividiamo parecchie credenze significative sui gatti (che sono animali, che miagolano, che cacciano i topi...), anche se non necessariamente tutte, e neanche tutte quelle "importanti" da un qualche punto di vista. Nella pratica comunicativa quotidiana, il genere di problemi incontrati dagli zoologi alle prese con l'ornitorinco si presentano di rado: anche per questo non c'è bisogno di immaginare quell'universo di significati pubblici e condivisi a cui Eco, nonostante tutto, rimane affezionato.
recensione di Voltolini, D., L'Indice 1997, n.10
Dal punto di vista dell'ornitorinco, questo ultimo libro di Umberto Eco è sicuramente un romanzo molto avvincente, ricco di avventure e peripezie, generosamente popolato di personaggi, con una trama robusta a sostenere il ritmo serrato della scrittura, benché il finale sia un rebus e nonostante la presenza in più punti di capitoli di taglio saggistico e di contenuto filosofico. D'altra parte, come l'ornitorinco sa e approva, Eco da sempre gioca su molti tavoli della scrittura, soprattutto su due, quello teorico e quello narrativo. Altre volte Eco ha voluto decisamente separare i due momenti. Secondo l'ornitorinco, infatti, i primi romanzi di Eco, come "Opera aperta" (1962), "La struttura assente" (1968) e "Trattato di semiotica generale" (1975) sono romanzi scritti da un narratore puro, che nasconde se stesso fuori dal teatro degli eventi e dissimula la propria visione della vita e del mondo nelle pieghe della storia che racconta. D'altra parte, l'ornitorinco ha letto, anzi studiato intensamente la produzione teorica di Eco: ha apprezzato lo sforzo filosofico sistematico del saggio "Il nome della rosa" (1981), così come ha ammirato la ricostruzione storico-critica di un momento cruciale per l'Occidente moderno sviluppata in "L'isola del giorno prima" (1994). Tuttavia l'ornitorinco più di tutto ha amato quel grande trattato sulla condizione dell'uomo contemporaneo che è stato "Il pendolo di Foucault" (1989).Ora Eco sembra aver voluto mescolare nello stesso libro le sue anime di filosofo e di narratore, cosa che dal punto di vista dell'ornitorinco è assolutamente naturale. Ecco allora il narratore allestire una trama rigogliosa, con personaggi misteriosi come l'Essere, che compare sotto diversi travestimenti in una storia di durata millenaria (secondo l'ornitorinco l'Eco narratore in realtà non crede che sia tramontata l'epoca dei grandi racconti, ma che essa sia per così dire appena cominciata), o come Oggetto Dinamico e Oggetto Immediato (una coppia di personaggi di lunga tradizione letteraria), o come Alfa e Beta, Ockham e Walter Chiari, i raffinati tipi cognitivi e i primitivi semiosici, per citarne solo alcuni. Si tratta di un romanzo che può essere letto a vari livelli, non soltanto come la semplice storia dell'Essere e dei nostri strategemmi per smascherarlo, e neppure soltanto come la maestosa storia degli uomini e delle donne alle prese con il mistero della vita, che quando sembra in procinto di essere svelato sempre si ridisegna beffardo e irreale come un enigma (perfetta in questo senso la scena finale del rebus, onirica e inquietante).È un romanzo che può generare innumerevoli interpretazioni, anzi il problema a questo punto è quello di tracciare, per esse, un limite. Ecco allora il filosofo intervenire in vari punti con brevi e densi capitoli teorici, quasi a voler isolare dal flusso del racconto alcune zone di riflessione. L'ornitorinco, che ama questo genere di cambiamento nel ritmo della scrittura, è rimasto molto colpito dal breve trattato di teologia "La storia dell'arcangelo Gabriele" e dal paragrafo di taglio francofortese dedicato alla critica dell'autoritarismo e del sadismo degli adulti nei confronti dei bambini ("Storia di Pinco"). Ma a strappare l'applauso teoretico dell'ornitorinco è soprattutto il brano ermeneutico "La vera storia del sarchiapone" (dedicato all'interpreta-zione del grande classico di Chiari e Campanini. Dal punto di vista dell'ornitorinco, il sarchiapone è il suo gemello, il suo doppio negativo, l'alter ego che cade oltre lo specchio. Là dove l'ornitorinco ha troppe qualità, il sarchiapone non ne ha nessuna. Tuttavia entrambi sono rompicapi per gli uomini e per le loro strategie cognitive. Questo piace molto all'ornitorinco, che va in sollucchero al pensiero che gli si sia dedicato un libro così (ha il sospetto che il punto di vista dell'autore sul mondo non sia poi così lontano dal proprio). È talmente soddisfatto da non provare nemmeno troppa gelosia per Kant.
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