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Il volume esplora la relazione esistente tra la musica leggera e la lingua letteraria, esaminando il repertorio canoro nostrano degli ultimi cinquant’anni, con numerosissimi e calzanti esempi, tesi ad illustrare i rapporti di filiazione, opposizione o estraneità esistenti tra i versi delle canzoni e quelli poetici. Lingua armoniosa per eccellenza, la nostra è tuttavia poco adatta ad essere musicata, a causa della scarsa presenza di parole tronche, frequentissime invece in molte altre lingue, e soprattutto in inglese. Da noi esse si limitano ai monosillabi, a qualche forma verbale, a pochi vocaboli astratti e ad alcuni avverbi. Come hanno ovviato a questo pesante handicap i parolieri di musica leggera? In passato, e fino al secondo dopoguerra, troncando parole piane (fior, amor, ben, muor) o utilizzando termini desueti (dì, mercé, beltà); oggi usando l’escamotage di accentare vocalmente sull’ultima vocale anche le parole sdrucciole (gli 883: “sei una libìdiné”), o invertendo il loro ordine usuale, oppure concludendo con congiunzioni, pronomi, avverbi, verbi o esclamazioni accentate, o ancora ricorrendo direttamente al dialetto e a lingue straniere. Zuliani si sofferma con puntualità sugli aspetti tecnici della composizione dei testi, chiarendo in che modo funzionino versi, rime e strofe nelle canzoni e nella lingua poetica, sottolineando giustamente come quest’ultima sia divenuta oggi del tutto marginale nella cultura di massa, ridotta a un’arte di nicchia poco praticata e poco letta dal pubblico, a tutto vantaggio delle canzoni, i cui testi si sono evoluti formalmente e contenutisticamente rispetto al passato. Se oggi nella produzione di musica leggera, prima si compone la melodia e ad essa si adattano le parole, è evidente che la lingua italiana risulta spesso mortificata dalle esigenze musicali, degli arrangiamenti e delle interpretazioni. In fondo, “sono solo canzonette”, come suggeriva Bennato: pretendere da esse che si innalzino ad arte è forse eccessivo.
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