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L'"immateriale" del titolo è il capitalismo postfordista o della "conoscenza". In esso, dice Gorz, "il lavoro di produzione materiale (...) è sostituito da lavoro" come "gestione di un flusso continuo di informazioni", basato "innanzitutto su capacità espressive e cooperative". Per far funzionare tale lavoro "immateriale" come capitale, quest'ultimo deve appropriarsi della conoscenza diffusa e delle relazioni sociali che la innervano, impedendole di diventare "bene collettivo" e facendone contemporaneamente l'asse attorno al quale "produrre i consumatori", secondo la logica manipolatoria delle public relations. Dalla serrata disamina di questi processi, contenuta nei primi due capitoli, l'autore passa, negli altri due, all'analisi dei possibili esiti estremi che egli vede all'orizzonte. Uno è una "società dell'intelligenza", capace di innescare una dialettica virtuosa fra conoscenze codificate e saperi "vissuti". L'altro è la "civiltà postumana" di "eterotecniche" fuori controllo quali l'intelligenza artificiale e l'ingegneria genetica. I toni a tratti apocalittici, la brevità della trattazione e qualche imprecisione fattuale (per cui, ad esempio, il padre delle public relations statunitensi Bernays diventa Barnays) non inficiano la salutare provocazione dell'indagine. Essa va, però, approfondita sul piano storico, alla ricerca dei "saper fare" del passato, e su quello sincronico, per chiarire i rapporti esistenti entro l'universo disomogeneo dei lavori, "immateriali" e non, e verificare gli effettivi margini di ricomposizione della cooperazione sociale.
Ferdinando Fasce
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