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recensione di Vercellone, F., L'Indice 1998, n. 2
La presenza del pensiero di Jacques Derrida nella cultura italiana degli ultimi vent'anni è paragonabile forse solo a quella dell'ermeneutica di Heidegger e Gadamer. Studi, traduzioni e ristampe si sono susseguiti anche grazie alla collana "Opere scelte di Jacques Derrida" diretta da Maurizio Ferraris e Pier Aldo Rovatti presso l'editore Cortina. Fra i titoli più recenti vanno qui ricordati la monografia di Mariapia Telmon, "La differenza praticata", pubblicato da Jaca Book e la ristampa sempre da Jaca Book di un testo fondamentale come "La voce e il fenomeno" dello stesso Derrida. Ma vi sono due libri di recente uscita sui quali va richiamata l'attenzione e che per molti versi possono essere considerati insieme. Si tratta di "Limited inc." che contiene la polemica di Derrida nei confronti di John Searle, e di ""Il gusto del segreto"", che contiene una serie di interviste filosofiche a Derrida di Maurizio Ferraris (inframmezzate da un commento di Derrida a un testo di Blanchot), un colloquio tra Derrida e Gianni Vattimo e, infine, un lungo saggio dello stesso Ferraris dedicato alla questione dell'essere. Ora, se c'è qualcosa che viene in primo piano, in particolare a partire da quest'ultimo testo, è la forza della questione morale all'interno della decostruzione. Dico morale e non etica, in quanto è la questione stessa della differenza all'interno della scrittura, tema principe della filosofia di Derrida, a rinviare alla dimensione dell'evento o della testimonianza. È questo anche il lato che rende particolarmente gradevole lo svolgersi di questi testi, ove l'implicazione sistematica non elude l'insorgere dell'evento ma piuttosto lo prevede. E lo ammette in una forma per la quale la decostruzione si schiude al rischio del senso e anche - ci si passi il bisticcio - del senso come rischio. Da questo punto di vista le connessioni con il percorso filosofico di Derrida si fanno più evidenti, in quanto quell'iterabilità che viene presupposta dalla scrittura, il citazionismo di Derrida che sembrerebbe mettere capo a un'ermeneusi infinita, non rinvia infine a una sorta di universale relativismo, ma propriamente all'evento del senso. Che è connesso all'iterabilità, la quale nella sua matrice temporale è a sua volta connessa alla morte; e dunque anche a un senso biografico. Nulla è eguale, proprio in quanto si ripete.
Quanto meno non si dà un senso speculativo che non sia biografico, come segnala la chiusa di "Firma, evento, contesto": proprio la firma di Derrida "sopra" la chiusa vuole segnalare un movimento (biografico e speculativo: il qui non è più qui; l'ora non è più ora) che rimette in movimento il testo. Nulla di meno avanguardistico nell'accezione corriva di avanguardia: la tentazione del "beau geste" estetico; e quanto di più avanguardistico nel senso di una correlatività dell'evento con la totalità che ne stabilisce il senso (si pensi alle scacchiere di Man Ray: una mossa come evento cosmico). Da questo punto di vista si può forse dischiudere una lettura non in chiave sofistica (vedi le accuse di Searle: se tutto è in tutto, nulla è davvero perspicuo; bisogna distinguere), ma tragica del pensiero derridiano.
È quanto per altro testimoniano le pagine sulla giustizia di ""Il gusto del segreto"", e fra l'altro i rilievi sulla morte di Falcone. Nuovamente è in questione la relazione insieme conflittuale e dialettica con il contesto: e questa è la scaturigine della giustizia. Che non ha, perlomeno immediatamente, da fare con la legge. È un'altra cosa: al limite, un rinnovarsi della legge nella sua evocazione. Dunque: "Il giudice Falcone è la figura di un giusto che, in nome della giustizia, ha sfidato il contesto, lo stato delle forze". In questo ambito "tout se tient"; ma c'è qualcosa che lo eccede. Ed è l'"evento" dell'esistenza; inconfutabile come un dato, e dialettizzabile come ogni altro. Anche la sofistica è dunque dialettizzabile. E Kierkegaard è l'autore da non dimenticare.
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