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Sembra un romanzo di avventura ma è una avvincente storia reale di un eroico italiano!
E' un libro di facile lettura, adatto a tutti, soprattutto a coloro che sono degli idealisti, dei romantici, degli amanti dei fatti d'arme, dei ...
GRAN LIBRO..!
Recensioni
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recensione di Tomasello, G., L'Indice 1993, n. 9
La storia di Amedeo Guillet, il tenente di cavalleria che operò in Africa durante il secondo conflitto mondiale, è straordinaria, insolita, veramente fantastica: sembra rivelarsi a tutto tondo dentro una logica romanzesca, tanto da far apparire questa biografia un racconto di avventure. E invece si tratta di vita vissuta, attentamente indagata e documentata da Vittorio Dan Segre, politologo, giornalista e docente a Haifa e a Stanford.
Il libro si concentra sul periodo di pochi anni che vede il trionfo e poi la dissoluzione delle ambizioni coloniali del fascismo. Proprio quando sta per consumarsi il disastroso epilogo militare dell'intera vicenda, quando Addis Abeba, l'Asmara e Massaua stanno per cadere nelle mani degli inglesi, Guillet, che ha maturato le sue ultime esperienze di combattimento in Spagna tra i legionari italiani a fianco della falange franchista, ritorna in Africa, tra le truppe che devono difendere i territori del recente impero italiano.
Guillet è un esperto di guerra coloniale. Nel 1935 aveva partecipato alla campagna di Abissinia alla testa di un reparto di cavalieri spahis libici, ed era stato impegnato nella repressione dell'estenuante guerriglia degli etiopi che tenevano viva la rivolta contro gli italiani dopo la caduta di Hailè Selassiè. Ora si trova invece a combattere nelle ultime operazioni di difesa e di ritirata di fronte all'avanzare dell'esercito inglese in Eritrea. E quando da Roma arriva l'ordine di arrendersi, non obbedisce, e si trasforma a sua volta in guerrigliero per contrastare l'occupazione nemica. Alle sue spalle Guillet aveva una singolare carriera. Nato nel 1909 da una famiglia aristocratica, appassionato di musica, aveva frequentato la scuola di equitazione di Pinerolo ed era stato chiamato a far parte della squadra nazionale olimpica italiana. Ma alla fine del '34, a venticinque anni, aveva abbandonato una carriera militare e sportiva assai promettente chiedendo di essere trasferito in un reparto coloniale. Poi aveva incontrato il generale Frusci, che l'aveva convinto a seguirlo nella guerra di Spagna. E al suo ritorno in Italia, ormai senz'altro maturo per una promozione, aveva attuato una singolare forma di protesta. Per evitare perfino il sospetto di voler approfittare della ridicola legge demografica fascista che imponeva le nozze per ottenere un avanzamento di grado, aveva rimandato il matrimonio imminente con una cugina lungamente corteggiata per farsi destinare ancora una volta all'Africa orientale. Qui gli era stato affidato un compito del tutto particolare: la creazione di una grande unità indigena, relativamente autonoma e libera da pastoie burocratiche, formata da duemila guerrieri eritrei ed etiopi a cavallo, veloce negli spostamenti e destinata a combattere su grandi distanze, con movimenti rapidi e improvvisi.
Per raccogliere e guidare questa formazione Guillet aveva adottato abiti, usanze, tattiche del luogo. Negli spostamenti si appoggiava a villaggi, stanziamenti, comunità locali dove i suoi uomini potevano contare su amici e parenti. E da questa banda di combattenti legati da un profondo rapporto di fedeltà personale alla figura prestigiosa del loro capo, Guillet, dopo la resa italiana, trae il nucleo del suo gruppo di guerriglieri.
La guerra privata del tenente Guillet contro gli inglesi durerà quasi due anni. Il suo gruppo è estremamente attivo: attacca convogli, distrugge ponti, depositi, gallerie. E preoccupa seriamente il nemico. Sulla testa di Guillet viene posta una taglia di mille sterline, ma nessuno lo tradisce. Catturarlo in un'azione militare, del resto, non è facile. Dotato di un intuito e di un tempismo straordinario, Guillet sfugge agli avvistamenti, alle trappole, agli accerchiamenti. E sa mascherarsi in modo perfetto. Scuro di carnagione conosce la lingua araba e qualche dialetto berbero, e può passare facilmente per un indigeno. Nelle sue imprese è seguito da una bellissima ragazza etiope di vent'anni, Kadija, figlia di un capo alleato, che lo ama appassionatamente. Ma il mascheramento non può durare a lungo. Il tenente è costretto a fuggire e a sciogliere la banda. Lascia Kadija, si rifugia a Massaua dove spera di trovare un passaggio per lo Yemen neutrale. Vestito di stracci lavora prima come scaricatore di porto, poi come acquaiolo. Parlando sempre arabo e comportandosi come un musulmano riesce a imbarcarsi su un sambuco diretto nello Yemen, ma le sue avventure non sono ancora giunte al termine. Gettato a mare dai barcaioli, rischia di morire di sete sulla spiaggia desertica, viene assalito e ridotto in fin di vita da una banda di pastori dankali e miracolosamente salvato da un mercante pietoso. Finalmente arriva nello Yemen e, dopo un breve periodo di prigione, raggiunge l'Italia qualche giorno prima dell'8 settembre.
Ciò che colpisce, nel leggere le avventure di questo nobile discendente dell'aristocrazia sabauda, colto e poliglotta, esperto di cavalli e buon giocatore di polo, che si muove con disinvoltura negli ambienti cosmopoliti dei ceti dirigenti europei e mediorientali ed è per di più dotato di capacità senz'altro straordinarie che ne fanno una perfetta figura di leader, è da un lato l'aspetto spiccatamente "letterario" della sua avventura africana, e dall'altro "lo spreco" del suo incredibile eroismo. Perché le gesta compiute dal tenente Guillet catturano indubbiamente il lettore, lo affascinano, ne suscitano l'immediata ammirazione. Ma poi, collocate nel contesto della guerra sul fronte africano e proiettate nello sviluppo della questione coloniale nell'Africa orientale, si rivelano prive di reale efficacia. Non sono, in termini brutali, servite a niente: sono rimaste fondamentalmente "inutili" acquistando i caratteri tipici di un semplice romanzo d'avventure. È come se questa naturale figura di leader, capo di una banda di guerrieri a cavallo, amante fortunato di una figlia di un capo tribù, fuggiasco capace di mescolarsi alla popolazione locale e di beffare la tenacia degli inseguitori, avesse potuto realizzarsi solo seguendo modelli ideali assolutamente inadatti a incidere sulla realtà circostante. Il punto infatti è proprio questo. Il fascismo non era riuscito a elaborare un'ideologia dell'eroe che permettesse di sfruttare le qualità degli elementi più dotati di un'antica classe dirigente aristocratica. Guillet, che combatte volontario in Etiopia e in Spagna, è insofferente verso le leggi demografiche, non rispetta le norme che dovrebbero regolare i rapporti con gli indigeni, e più in generale non riesce mai a riconoscere nella mentalità del regime sicuri elementi che si adattino alla sua cultura d'origine. E si trova così a seguire spontaneamente un modello vicino all'ideale eroico di stampo dannunziano, a delineare con la sua vita un'avventura straordinaria e affascinante, fine a se stessa. Non per nulla al suo ritorno in Italia, terminata la guerra, Guillet si sarebbe indirizzato spontaneamente - con implacabile perseveranza - verso le forme di servizio dello stato caratteristiche del suo ceto. Finita la possibilità di proseguire la carriera militare nei modi avventurosi che solo l'esperienza coloniale era stata in grado di offrirgli, superò un concorso in diplomazia, diventando ambasciatore nella Yemen, in Marocco e infine in India. Sposò Bice, l'amata cugina che lo aveva fedelmente atteso. E adesso vive in una grande casa in Irlanda dedicandosi alla cura dei suoi quattro cavalli, alla caccia alla volpe, alla musica e alla pittura.
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