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“Gli avvenimenti che si svolgono in un grande albergo non costituiscono mai per intero dei destini umani completi e conclusi. Sono soltanto dei frammenti, dei brandelli, delle componenti; di là dagli usci chiusi ci sono delle persone, alcune insignificanti, altre notevoli; persone in ascesa e persone in declino; successi e catastrofi si trovano muro contro muro. La porta girevole ruota, e quel che accade fra un arrivo e una partenza non forma mai un tutto […] Ognuno vive dietro i propri doppi usci, e per compagnia ha soltanto la propria immagine allo specchio del guardaroba o la propria ombra alla parete”. Ecco Grand Hotel, romanzo del 1929 che mette in scena l’umanità nelle sue molteplici sfaccettature: la ballerina sul viale del tramonto, il giovane barone senza quattrini, l’impiegato frustrato e improvvisamente ricco, l’imprenditore intraprendente ma ingenuo. Nel Grand Hotel non solo si incrociano vite, ma si intrecciano destini, sul filo sospeso tra amore e morte. Ospiti in transito nella vita, esattamente come in albergo: “cosa fa lei in un grande albergo? Dorme, mangia, gironzola qua e là, conclude degli affari, intreccia qualche flirt, va un po’ a ballare, no? Beh, e cosa fa nella vita? Cento usci che si affacciano su un corridoio, e nessuno sa nulla di chi gli alloggia accanto. Quando lei parte, arriva qualcun altro e si mette nel suo letto. Capitolo chiuso”. E su questo flusso sembra vigilare la grande porta girevole dell’ingresso, da cui si entra, si esce, si entra, si esce.
Credo che in ognuno di noi sia presente un (sano) lato voyeuristico. Studiare psicologia ha, forse, esacerbato questa mia piccola mania, ma la verità è che ho sempre trovato divertente, interessante e istruttivo osservare le persone: vedere come si comportano, ascoltare ciò che dicono, provare ad indovinare i pensieri che si agitano dietro gli occhi di ognuno. Mi rivedo seduta in un vagone della metro o ferma ad una pensilina dell'autobus mentre mi domando: "Chissà dove sta andando?", "Con chi starà parlando al telefono?", "Perché ha un'espressione così triste? Cosa gli sarà successo?". Grand Hotel di Vicki Baum stuzzica proprio questo lato qui. Immaginate di rimanere seduti nella hall per qualche giorno e non far altro che guardare il via vai di gente che entra ed esce dall'albergo; all'inizio non sapete niente di nessuno, ma dopo un po' riconoscete le facce, le associate ad un nome sentito per caso, imparate orari e abitudini dei soggetti più curiosi, notate con chi trascorrono la maggior parte del tempo o con chi intrecciano nuove relazioni e, soprattutto, iniziate a fare ipotesi su ipotesi. Vi dirò di più: questi pensieri dicono di noi molto più di quanto effettivamente ci informino sull'Altro e un'autoanalisi su ciò che affolla il nostro cervello in momenti del genere è in assoluto la parte più interessante di tutto il processo (l'ho già detto che studiare psicologia mi ha definitivamente traviato?). Sarà anche vero, dunque, che da un albergo si esce soli così come si è entrati - stando alla frase del libro che ho riportato all'inizio; tuttavia, quando si fa fatica ad incontrare "un Tu che si lasci cogliere o trattenere", si può sempre provare con il proprio Io.
Lettura molto gradevole. Un piacevole tuffo in ambienti e atmosfere mitteleuropei ormai lontani e perduti. Lieve ma con non scontato; delicata, raffinata e consapevole metafora della vita.
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