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E' stata una piacevole scoperta questa autrice che non conoscevo ed ho conosciuto tramite un altro suo libro: "Roma, non altro". Una scrittura fluida, disinvolta, dettagliata e mai noiosa. In questo libro la Prato descrive la sua infanzia trascorsa a Treia, anzi, Treja, un paesino nelle Marche in provincia di Macerata dove ha vissuto affidata agli zii. Il racconto diventa uno meraviglioso spaccato della vita di allora (siamo ai primi del '900) con la magnifica descrizione del borgo di Treja, dei suoi abitanti, delle usanze e del modo di vivere di allora; degli oggetti di uso quotidiano, dei paesaggi. Davvero merita il tempo necessario per le oltre 600 pagine. Un capolavoro come è stato definito. Consiglio la lettura.
Mi sono fermata a pag. 400 ma non ho perso le speranze di finirlo. Con la consapevolezza che si tratta di una lettura veramente impegnativa, fatta di tantissimi minuziosi dettagli e ciò può in effetti stancare, a volte, abituati come siamo a essere trascinati da trame forti dove succedono cose forti. Eppure in quei dettagli apparentemente insignificanti descritti in modo quasi maniacale risiede il fascino - e l'importanza - del libro. Riportano in vita tutta un'epoca, un modo di vivere, una mentalità. E stranamente al lettore sembra di riviverlo, quel passato, come se fosse il proprio. Trovo quindi che rappresentino altrettante vivide "fotografie" letterarie, tasselli di una memoria storica. Inoltre sono stati loro i compagni della solitudine di Dolores bambina, cresciuta con dei genitori adottivi, due strani personaggi che si aggiungono ai tanti abitanti - anch'essi descritti con strabiliante precisione, dopo tanti anni - di Treia, meraviglioso borgo sospeso tra gli Appennini e il mare. Le mie cinque stelle comprendono tutto: la bellezza del borgo oggi fuori dal tempo, con i suoi bei palazzi, i suoi scorci e la famosa piazza con il suo panorama quasi ultraterreno, e in passato culla di cultura. La figura di Dolores, anche come donna oltre che autrice, e la sua scrittura purissima come cristallo. E anche le belle manifestazioni organizzate negli ultimi anni da associazioni culturali, soprattutto le passeggiate con soste nei luoghi più significativi del libro per ascoltarne brani letti da attori in costume dell'epoca.
La scoperta di Dolores Prato è di quelle che lasciano il segno. Autrice di assoluta qualità, schietta, senza retorica, la Prato compone uno Zibaldone in cui i ricordi dell’infanzia costituiscono la trama per tratteggiare, con toni talora nostalgici, i luoghi e le figure che hanno popolato e segnato la sua vita. Piccoli pezzi di vita, ognuno dei quali costituisce la tessera di un unico mosaico, sul quale viene a formarsi una geografia intima e personale di Treia, un piccolo borgo che si distende sulle colline delle Marche. La Prato non si arrende a quella forma di indulgenza che spesso caratterizza le persone in tarda età, al contrario ripercorre con spirito critico – e senza risparmiare giudizi caustici, quando serve – i passaggi salienti di un’infanzia non felice, consapevole del fardello che l’accompagna sin dalla nascita: quello di essere una figlia non voluta e per questo affidata alle cure degli zii (un prete ed una donna dal passato in ombra), attenti sì ma non amorevoli. E questa condizione non può non incidere sul formarsi del carattere di Dolores, incapace di esprimere la propria personalità a causa dei legacci famigliari: “quello che ho sempre avvertito è stata la diversità sentita come inferiorità in tutto e a tutti. Questa era la mia diversità: una pena dello spirito che ha legato il corpo. Cattiva no, insofferente sì”. La Prato racconta dunque la sua Treia, il suo “ombelico del mondo”: è qui che ella vive gli anni della prima giovinezza, è qui che la sua mente ritorna, ora che anziana e quasi cieca non le resta che il ricordo del tempo passato. Giù la piazza è un libro affascinante, un capolavoro rimasto inspiegabilmente ai margini del panorama letterario, e la fortuna di averlo letto equivale ad aver colto un quadrifoglio in un vasto prato verde.
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