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È vero, raccontare è un gioco e io, lo ammetto, amo molto giocare. Il gioco mi ha sempre tentato; ma in questo momento il gioco che più mi tenta è quello del Rovescio. E gli altri giochi che esso si porta appresso, naturalmente. Perché ci sono svariati giochi in questo libro, tutto sta nel lasciarsi tentare. Ma quello che importa è che tutte le sue variazioni, tutte le sorprese, i rischi e le audacie aprono strade che si dirigono verso un obiettivo finale, verso l’individuazione di un’unità contraddittoria. Inquietano e allarmano. Seducono. Sono illuminazioni che portano alla scoperta più profonda o più sottile, e che ci possono lasciare davanti a una bicicletta – personaggio che, carico di passato e di mistero, attraversa I pomeriggi del sabato – oppure condurci sull’orlo di un volto esorcizzato: un buco ritagliato in una fotografia. Detto questo, e di fronte a tutto il resto che questo libro mi offre, trovo conferma a una vecchia convinzione: che non c’è gioco gratuito neppure nei giochi dei bambini, che sono cose fin troppo serie, come gli psicologi insegnano. E tantomeno in letteratura, perché in essa non esiste maestro o croupier che la comandi. No, nell’avventura della scrittura non c’e mano che si alzi e che ordini: “Rien ne va plus, les jeux sont faits”. Ed è per questo che, dopo aver chiuso Il gioco del rovescio, tutto può prolungarsi da un altro capo e ciò che ora sto scrivendo può ricominciare in un altro modo.
José Cardoso Pires
(dalla Prefazione all’edizione portoghese)
Titolo: IL GIOCO DEL ROVESCIOAutore: ANTONIO TABUCCHIEditore: RIZZOLI EDITOREAnno: 1994Vol. in -8 (12,5 x 19,5 cm.), brossura editoriale illustrata a colori, pp. 174, (2). In buone condizioni.
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Tabucchi anche in questi racconti fa un uso molto originale della scrittura. Se ne serve non per raccontare come in genere fanno i narratori ma piuttosto per evocare e suggerire come farebbe un poeta o un pittore. La cosa di cui si parla non è mai descritta direttamente. In genere si tratta di un rovescio, di una assenza, di un negativo dell'animo. Ma chi sia assente, non lo dice subito. Lo si intuisce alla fine di ogni racconto attraverso un gioco di rimandi che è come una specie di riflesso del riflesso o di associazioni di idee o di immagini. Si presenta nel racconto una immagine simile, magari di una sorella che improvvisamente cambia forma. In questo modo senza parlarci mai direttamente di nostalgia o del vuoto per una assenza, Tabucchi ci fa sentire sulla nostra pelle quella nostalgia e quel vuoto.
"Vi sono in cielo e terra, Orazio, più cose di quante ne sogna la tua filosofia". Amleto sa che uno spirito è presenza, che una madre può essere una bestia da lussuria, che "uno può sorridere, sorridere, ed essere una canaglia". Sa che un funerale è un matrimonio livido, che la corte è un porcile lurido, che un letto celeste può farsi sede d'immondizie. Sa la differenza tra la consistenza-forma delle cose e quel "qualcosa ch'è al di là d'ogni mostra", tra il sembrare e l'essere, tra il reale e ciò che è vero. Occorre il principe danese, involontario quanto perfetto esegeta, per "Il gioco del rovescio" di Tabucchi, le cui prose sono sguardo volto all'ombra, percezione improvvida del minuto, cognizione in anima dell'in-visibile. E' offerta scritta dell'altro, dell'ulteriore, dell'o-sceno la pagina di Tabucchi. E' policromia serbata nel nero inchiostro d'un carattere. Serrare gli occhi per vedere meglio: ci si accorge che niente è come sembra. Così un padre si fa fantasma estivo di ritorno, un figlio "allegro, davvero allegro" finisce atroce tra gli atroci, un fratello che è una sorella scrive ad una sorella che è una speranza. Così un ritorno è una disfatta a vuoto, un'assenza è apparizione ultima, il "paradiso celeste" cela inferni malati. Così Fitzgerald si fa piccolo, Re Lear muore in Africa, e Dino Campana da Marradi acrobata tra versi e passi. E la letteratura, rovescio e sogno della vita, carezza portando in luce la reversibilità d'ogni storia, d'ogni nome, d'ogni senso. "In albergo apersi la lettera. Su un foglio bianco c'era scritta la parola SEVER. La rovesciai meccanicamente, in pensiero: REVES. Meditai un attimo su quella parola che poteva essere spagnola o francese e aveva due signifiati diversi. Pensai che la parola spagnola e francese coincidevano in un punto. Mi parve che esso fosse il punto di fuga d'una prospettiva, come quando si tracciano le linee prospettiche di un quadro". Il punto di fuga: "mi incamminai verso quel punto. E in quel momento mi ritovai in un altro sogno". Il resto è silenzio.
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