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Questo è il primo libro di Sepúlveda che ho letto e che mi ha fatto innamorare di questo autore del quale poi ho infinitamente amato “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”. La frontiera scomparsa è quella che portava nei luoghi della felicità. Un tempo era facile trovarla sebbene non comparisse su nessuna cartina. Poi sono arrivati tempi bui che hanno oscurato anche la via. Ma c’è chi, zaino in spalla, non rinuncia a cercarla e con essa a cercare la libertà, in nome della quale ha affrontato il carcere, la tortura, l’esilio. Il libro consta di sette racconti che sono metafora della storia personale dell’autore e di quanti hanno vissuto le torture della dittatura ma non hanno mai smesso di credere all’utopia del bene. E Sepúlveda lo fa attraverso i suoi scritti perché “narrare è resistere”.
Dopo la morte di Sepulveda in aprile ho deciso di leggere qualcosa che non avevo ancora letto di questo autore. Il libro è pazzesco già dall'incipit. Racconta la storia - vera - di Luis e della sua fuga dal Cile dopo il colpo di stato di Pinochet. Un viaggio-peripezia per uscire dal Sud America e giungere a Martos, in Spagna, nel paesino da cui il nonno era emigrato molti molti anni prima. Il nonno è la figura chiave del libro, che guida il protagonista anche se è assente. Magnifico.
Scritto bene con qualche splendida citazione, ma non appassionante come Cent'anni di solitudine di Garcia Marquez. Una serie di racconti su un lungo viaggio alla ricerca della frontiera scomparsa (la felicità) e delle proprie origini, attraverso tutta l'America latina, con personaggi incredibilmente paradossali e storie che sembrano inventate. Romanzo forse un po' datato, ma un Sepulveda non si nega a nessuno!
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