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Un libro molto interessante, che tratta dei problemi della finanza e dell'economia.
Le analisi svolte da Gallino sulla trasformazione del capitalismo da produttivista in finanziario e sul dominio di quest’ultimo a danno dell’uomo, del pianeta, della civiltà sono profonde e ben documentate, e forniscono un panorama agghiacciante dell’oggi e un quadro desolante e del tutto plausibile del futuro che ci attende. La finanziarizzazione delle imprese produttive ha generato un’organizzazione non soltanto economica ma anche politica, sociale e culturale che ha prodotto peggioramento delle condizioni lavorative, bassi salari, disoccupazione, miseria, incompetenza manageriale, infantilizzazione dei consumatori. La stessa idea di democrazia è schiacciata dalla preponderanza aggressiva dei mercati finanziari nelle loro strategie per una ossessiva e avventata ricerca del profitto. Lo scenario globale raffigurato descrive una struttura finanziaria dalle dimensioni colossali fluttuante su uno stagno fangoso, sistema di cui – anche grazie alle tecnologie informatiche – gli apprendisti stregoni hanno perso il controllo, con conseguenze imprevedibili in assenza di profondi cambiamenti (dei quali l’Autore parla con un certo scetticismo nell’ultima parte del libro). Si tratta di un saggio pregevole che non si legge agilmente sotto l’ombrellone ma che va analizzato e studiato con cura.
Sistematico, preciso, completo ed esaustivo. Per capire di quale fondamentalismo è stato preda l'occidente negli ultimi trent'anni. Vengono indagati anche i paradigmi culturali e teorici sui quali ha poggiato la controffensiva del capitalismo finanziario. Non è un libro da utilizzare come vessillo anticapitalista ma la descrizione di come le vite dell'occidente siano mutate a partire da un evento fondamentale: la liberalizzazione dei movimenti di capitale. Da leggere per capire che, pur non rendendocene conto, siamo imbevuti di una dottrina feroce.Che sta producendo danni forse non più rimediabili
Recensioni
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Il "finanzcapitalismo" è una mega-macchina sociale (come quella usata per costruire le piramidi) sviluppata, spiega Gallino, "allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di essere umani, sia dagli ecosistemi". Il suo motore, e ragion d'essere, è la finanza, capace di far saltare persino la M della nota formula, ormai ridotta a un semplice D1-D2. Un sistema bancocentrico se per banche si intendono in realtà quelle "immense reti societarie" coinvolte nell'attuale casinò finanziario nel quale assumono primaria importanza da un lato la "finanza ombra", quella dei derivati, delle società-veicolo impiegate dalle banche per veicolare, appunto, i titoli fuori dal proprio bilancio, e dall'altro i cosiddetti investitori istituzionali, gli hedge funds e i fondi pensione, veri e propri arbitri del destino non solo finanziario del pianeta. Così, nelle prime tredici pagine del volume, Gallino tratteggia i caratteri fondamentali della nostra "civiltà del denaro in crisi", ripercorsi poi nel capitolo conclusivo, in una bella analisi di matrice polanyiana sulle possibilità di "incivilire" il finanzcapitalismo. Per lucidità didattica e completezza (si legga il capitolo dedicato alla "piramide degli schemi esplicativi" della crisi finanziaria, e le osservazioni critiche concernenti i timidi tentativi di riforma finanziaria discussi in sede europea, ben lontani dal percorso intrapreso dalle due, ferite, potenze anglosassoni), il saggio dovrebbe comparire tra i libri di testo dei nostri studenti di economia, ancora ostaggio dei neoclassici modelli IS-LM e dell'idea che il rischio sistemico del castello finanziario sia gestibile. Augurandoci (senza troppe speranze) che ciò accada, segnaleremo però un altro merito del volume. Per troppo tempo ci siamo accontentati della tesi secondo la quale l'economico, nel mondo post guerra fredda, avrebbe soggiogato il politico, vittima quasi inconsapevole dei pressure groups delle corporations industriali e finanziarie. Costringendoci a riflettere sulle giustificazioni addotte, prima, per l'abnorme espansione della finanza derivata (crescita della domanda trainata da una liquidità sempre crescente, e da conseguenti bolle immobiliari) e, poi, per lo smantellamento dello stato sociale e in generale del settore pubblico (nell'ordine: non serve, è improduttivo, è la causa dei nostri mali, è comunque troppo dispendioso, e ahimè! non siamo in condizione di salvarlo), nonché sul divario sempre maggiore tra la crescita della produttività e arretramento dei salari, Gallino ci ricorda invece che quello giocato dalla politica nel favorire lo sviluppo del finanzcapitalismo è stato un ruolo più che attivo. Ne avremo piena consapevolezza, purtroppo, solo la prossima volta, quando a dover essere salvati (ma da chi?) non saranno più le banche ma gli stati stessi.
Mario Cedrini
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