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..da quel che ho letto e capito leggendo il libro, pare che nella traduzione dal polacco all'italiano parecchio vada perso nell'impossibilità di tradurre molti giochi di parole, però il lavoro del traduttore verdiani è eccellente al punto da rendere quest'opera assolutamente originale e geniale anche agli occhi dei lettori italiani..
Libro stranissimo, scritto in una maniera del tutto inusuale, credo che per il suo tempo (1937) sia stato veramente una rottura forte nel genere romanzo. Il libro è scritto come un romanzo ma l’autore interloquisce spesso e volentieri con il lettore. Il protagonista, Gingio, un trentenne, si trova riportato all’età dell’adolescenza, in terza liceo, e comincia ad essere trattato come tale. Da questa semplice ispirazione iniziale si diparte un libro molto divertente in cui si succedono situazioni spesso al limite del paradossale, il tutto rivolto ad una critica impietosa dell’immaturità del mondo contemporaneo (ripeto siamo nel 1937, anche se molte osservazioni potrebbero tranquillamente essere valide anche oggi). Il libro è quindi fortemente dissacrante per quello che è il mondo entro cui l’autore era nato e si muoveva. Non sono assolutamente d’accordo con la recensione di Sasso in cui viene detto che il romanzo non abbia mantenuto inalterata la sua carica eversiva: con quale altro libro, anche contemporaneo, lo vogliamo e possiamo confrontare? La struttura stessa del libro, il modo in cui viene narrato, la costruzione e l’esposizione stilistica sono di rottura con gli schemi tradizionali di allora, ma anche di oggi. Quindi per me libro attualissimo, di piacevolissima lettura. Sicuramente da leggere. Due parole su come sono arrivato alla scoperta di Gombrowicz e di Ferdydurke: ho appena letto il bellissimo libro “Tra parentesi” di Roberto Bolaño in cui viene spesso citato questo romanzo, tanto da farmi venire una voglia impellente di leggere questo romanzo. Un sentito grazie, anche per questo, a Bolaño, uno dei miei autori preferiti.
Uno dei libri più belli mai scritti...La prigione delle forme e la costrizione del ruolo che ognuno di noi svolge nella società non poteva avere migliore rappresentazione..
Recensioni
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recensione di Marchesani, P., L'Indice 1992, n. 1
(recensione pubblicata per l'edizione del 1991)
Finalmente, dopo una parentesi editoriale lunghissima, riecco "Ferdydurke", il capolavoro di Witold Gombrowicz, e uno dei due o tre libri più importanti della letteratura polacca del Novecento. Un'opera che fin dal suo apparire, nel 1937, segn• uno spartiacque, rompendo con le dominanti convenzioni realistiche e psicologistiche. Anche se, ovviamente, la scrittura di Gombrowicz non nasce nel vuoto: si pensi solo ai nomi di Witkiewicz e Schulz, insieme al primo una triade a dir poco originale.
La sorte, che benignamente concesse all'autore di "Ferdydurke" - solo fra i tre - di sopravvivere al cataclisma bellico, non fu altrettanto indulgente nei confronti della sua carriera letteraria. Un lunghissimo esilio in Argentina, una breve riapparizione della sua opera in Polonia grazie al disgelo gomulkiano, presto interrotta dal riacutizzarsi della sindrome da idiozia del regime, ontologicamente incompatibile con l'essenza stessa dell'animus gombrowicziano, poi un vuoto colmato solo nel 1986 da un'edizione (parziale) in nove volumi per il Wydawnictwo Literackie (Edizioni Letterarie) di Cracovia.
L'ingresso dello scrittore nell'Europa occidentale risale al 1958, anno in cui Julliard pubblica "Ferdydurke". Grazie a tale mediazione il romanzo appare nel 1961 anche in Italia, presso la Einaudi, che anticipò di misura la concorrenza della Feltrinelli (e lo ristampò nei "Supercoralli" nel 1966, sebbene buona parte della precedente edizione (invenduta) fosse finita al macero. Apprezzato da critici come Arbasino, Giuliani, Ripellino, Sanguineti, caro a scrittori quali Calvino e la Corti, il romanzo non conseguì un pari successo di pubblico. Lo stesso fu del resto per la maggior parte dei titoli di Gombrowicz, ammucchiati per anni ai Remainders.
Fin qui nulla di sorprendente. Resta invece irrisolto un quesito emblematico, ossia quale "Ferdydurke" fosse stato dato in lettura al pubblico italiano. La difficoltà di tradurre un'opera di estrema complessità linguistica e stilistica è insistentemente prospettata all'editore italiano dall'autore, che condiziona addirittura la concessione dei diritti alla soluzione del problema. L''escamotage' proposto dall'editore, ansioso di accelerare i tempi ma in difficoltà a reperire sul mercato un traduttore all'altezza del compito, e accettato 'bon gré mal gré' dall'autore - con la garanzia di una supervisione finale da parte di Konstanty A. Jelenski, critico polacco residente a Parigi, e fra l'altro gran patron dell'edizione del romanzo per Julliard - fu quello di una traduzione dal francese (circostanza naturalmente taciuta al lettore), affidata a Sergio Miniussi (ringrazio l'Einaudi per avermi consentito l'accesso alla corrispondenza - inedita - di Gombrowicz nei suoi archivi).
La stessa difficoltà si era già presentata con la traduzione francese, realizzata in Argentina a spese dello stesso Gombrowicz, e con la sua diretta collaborazione. Ce ne informa nei dettagli la corrispondenza - recentemente data alle stampe - dello scrittore con Jelenski: "Pour les n‚ologismes, nous nous sommes déjà suffisamment creusé la cervelle ici et nous n'avons gardé que ce qui me semblait tant bien que mal acceptable". Gombrowicz difende in particolare la scelta di tradurre il vocabolo 'pupa' ("culetto", del linguaggio infantile) - ricorrente con importanti implicazioni "ideologiche" e le sue varianti, con vari 'cucul', 'archicucul', 'cuculandrum', ecc. Tali neologismi sono da lui giudicati idonei a compensare in qualche misura - come già nella versione spagnola - l'impoverimento della dinamica della lingua originale. Una traduzione dunque non dell'autore, ma con il concorso e l'approvazione dello stesso.
A sua volta però anche la versione francese non derivava direttamente dall'originale, bensì da quella in spagnolo, apparsa a Buenos Aires nel 1947. La storia di questa traduzione del romanzo - la prima in assoluto - costituisce un capitolo inconsueto e divertente della lunga "battaglia" condotta dall'autore per l'affermazione di "Ferdydurke". Essa ci è nota, grazie sia alle dichiarazioni di Gombrowicz sia alle testimonianze dei suoi protagonisti, raccolte e pubblicate specie per merito della vedova dello scrittore, Rita Gombrowicz. Tale versione infatti fu realizzata nel 1946, per lo più, intorno a un fumoso tavolino del caffè Rex di Buenos Aires, dove l'autore sottoponeva alla discussione e revisione di un comitato di traduzione, composto da giovani letterati argentini e guidato dallo scrittore cubano Virgilio Piñera, il canovaccio di traduzione da lui approntato. Del risultato Gombrowicz si assunse la paternità - pur riconoscendo lealmente il proprio debito nei confronti degli amici del Rex - già nella prefazione all'edizione argentina dei 1947, ora inclusa nell'edizione feltrinelliana.
La versione einaudiana costituiva dunque l'ultimo anello di una lunga catena. In realtà poi la versione spagnola approntata da Gombrowicz e dal suo clan non era una semplice traduzione, bensì un adattamento, con ampi tagli, aggiunte, modifiche o riscritture. Parte di quei tagli fu successivamente introdotta da Gombrowicz - all'epoca ancora residente in Argentina - nella nuova edizione del romanzo. Il carattere accidentato del cammino percorso da "Ferdydurke" per giungere al lettore italiano spiega le notevoli differenze fra l'attuale edizione di Feltrinelli e quella precedente della Einaudi. Insufficiente appare la nota che accompagna la nuova versione, dove si dice solo che la traduzione del 1961 era "incompleta, basata sull'edizione francese". Inesatta è poi l'indicazione - ripresa dall'edizione di Cracovia del 1986, su cui essa si basa - che le modifiche dell'edizione argentina siano state introdotte dall'autore in quella polacca del 1957. Come già precisato, si trattava di modifiche assai più ampie, di cui Gombrowicz mantenne solo parte (l'errore dell'editore polacco dipende dal non aver controllato i testi. Oltre alla prefazione argentina di Gombrowicz, l'edizione feltrinelliana include, pure utilmente, un commento a mo' di chiarimento pubblicato dall'autore nel 1937, e la traduzione delle principali varianti della prima edizione (riportare in appendice dall'edizione di Cracovia del 1986). È certo un fatto importante che - a distanza di trent'anni dalla prima traduzione italiana - sia comparsa una nuova versione del capolavoro di Gombrowicz direttamente dalla lingua originale. E ciò malgrado le riserve suscitate dal lavoro del traduttore, da cui, proprio per la capacità di comprensione del testo generalmente dimostrata, era lecito aspettarsi un risultato più meditato. Riserve che nascono non tanto dalle sviste o inesattezze che qua e là affiorano - in misura tutto sommato fisiologica -, quanto da talune, più rilevanti scelte linguistiche. Ne è un esempio l'uso disinvoltamente arbitrario di forme di marcata colloquialità (cfr. p.19: "branco di donnette tutte culo e camicia con la letteratura, tutte pappa e ciccia con i valori", per "branco di donnette aggrappate, appiccicate alla letteratura, in sommo grado iniziate ai valori"; p. 68: "testimoni di come un insieme di parole insignificanti sia finito a schifio", per "testimoni di come la faccenda, fatta di parole vuote, si sia conclusa in modo abietto", ecc. Si può capire l'ammirazione per l'inventiva di Gombrowicz e un pur nobile desiderio di emulazione, ma il mettersi a gareggiare con lui in espressionismo linguistico senza essere un Gadda, e per giunta sopra tono, è un'operazione oltre che di dubbio gusto, fuorviante. La stessa disinvoltura spinge il traduttore ad abbondare nell'uso di un lessico regionale (cfr. ad esempio p. 34: "pisquano"; p. 168: "inteccherito" (?); p. 199: "sprocetato", "burino"; p. 218: "pischello"; p. 232: "papagno"), facendo così parlare i contadini come villici del contado toscano (p. 182: "Ma che so' un omo io. La mi lasci andare!"; p.216: "Vonno butta' fora a Walek! Buttallo fora! 'un glielo dò, è mio, 'un glielo dò").
Allo stesso modo non sembra felice nei suoi esiti la rinuncia a certe soluzioni escogitate dalla ditta Gombrowicz & Company nella traduzione spagnola e confermate in quella francese. È il caso di 'pupa' e varianti (i "culetto", "culettino", "sedere", "deretano", sostituiscono così i vari "culcullo", "culculandro", "culculover" dell'edizione einaudiana), e di 'geba' (reso per lo più con "faccia", al posto della precedente "ghigna"). Il risultato paradossale è che la traduzione del 1961 benché assai meno corretta filologicamente, si fa rimpiangere in più d'una pagina quanto a misura e ritmo, cioè per quello stile così consustanziale alla scrittura gombrowicziana.
Potrà essere utile un esempio: "Dunque: La parte basilare del corpo, il buon vecchio 'deretano', è il fondamento dal quale tutto trae origine. Da esso, come dal tronco principale, si dipartono le ramificazioni (...). Il volto umano è il fogliame, la corona dell'albero che, con le sue varie parti, spunta fuori dal tronco del 'sedere'; e in esso si conclude il ciclo iniziato dal 'sedere stesso'. Una volta giunti al volto, che altro mi resta da fare se non ridiscendere alle varie parti e tramite loro tornar nuovamente al 'sedere'? (ed. Feltrinelli, p. 69); "Guardate: la parte fondamentale del corpo, il bravo 'culcullo' addomesticato, sta alla base. Quindi tutto prende origine dal 'culculario'; dal 'culculame', come da un tronco, biforcano parti del corpo (...). E il viso dell'uomo (conosciuto anche coi nomi familiari di ghigna, muso, ceffo) è la cima dell'albero le cui parti separate s'innalzano dal tronco 'culculato'; la ghigna dunque chiude il ciclo aperto dall'ottimo 'culculover'!" (ed. Einaudi, p. 70; i corsivi nelle due citazioni sono miei). Un confronto con l'originale chiarisce esemplarmente la funzione compensatrice assegnata da Gombrowicz ai vari "culculover". Nel testo polacco in questione (cfr. ed. 1986, p. 68) il termine 'pupa' compare sei volte, e tre la parola 'papa' (variante regionale per "muso"), entrambi combinati in un gioco di assonanze. Di esso non resta nulla nell'edizione feltrinelliana, che rinuncia del tutto a tradurre il termine 'papa'.
Un'analoga strategia translatoria informa tutta la traduzione spagnola di "Ferdydurke". Consapevole di dover trasferire il suo prodotto in una diversa realtà culturale e linguistica Gombrowicz preferisce di regola una scrittura ex novo a una traduzione morta. Lo vediamo ad esempio quando la risonanza semantica delle sue 'trouvailles' - criptocitazioni in chiave derisoria - si combina con quella fonico-ritmica, che utilizza le ricchissime possibilità desinenziali del polacco con impareggiabili esiti di comicità musicale (cfr. ed. Feltrinelli, pp. 37-38; ed. Einaudi, pp. 34-35; ed. polacca 1986, pp. 31-32).
In conclusione, una maggiore riflessione critica, anche sulle soluzioni dello stesso autore, insieme a una più rigorosa disciplina linguistica e stilistica, avrebbero certo giovato al nuovo "Ferdydurke" feltrinelliano. Ciò non toglie che esso si situi a un livello di attendibilità incomparabilmente più alto rispetto alle versioni delle altre due opere di Gombrowicz pubblicate in tempi recenti sempre dalla Feltrinelli.
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