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Romanzo tosto, per culture e menti elevate. Lo consiglio.
Capolavoro assoluto di un autore di superba grandezza intellettuale. Termine quest’ultimo che, sin troppo abusato nel tempo e per autori e (sedicenti) pensatori ben al di sotto dei meriti reali della loro stereotipata raffigurazione, a lui si attaglia con assoluta corrispondenza di certificata sostanza letteraria. L’originale ed integrale “Eros e Priapo” è scritto in una sorta di volgo antico, dalla fonia e dagli accenti gergali di assonanza medioevale, ed esprime un’accorata denuncia su tutte le energie sprecate, sulla fiducia tradita, il coraggio sperperato, l’intelligenza umiliata e, soprattutto, sull’inutilità di un’apparenza idolatra che, in Italia, ha rappresentato la peggior storia e politica dipanatesi negli anni del ventennio fascista, ed in parte anche dopo, così costringendo l’intero Paese ad arrancare ancora in una condizione di patetico galleggiamento. Una furibonda denuncia sulle incompetenze del potere, sulla pochezza delle classi dominanti, sullo spietato avanzare del caos morale ed il gran “pasticcio” giunto ad esser generato dai reiterati cinismi, oltre alla gran quantità di aspettative deluse: quelle di un uomo che, proprio come lo stesso autore, fu interventista convinto ed ufficiale militare nella Prima Guerra Mondiale (fatto prigioniero dopo Caporetto), nonché iscritto al Partito Nazionale Fascista poi (seppure fra dubbi ed inevitabili incertezze). Libro complesso, articolatissimo, difficile, scritto per coloro che sanno veramente leggere, dove: il disprezzo per ciò che è stato e ciò che si è stati avrebbe come reazione di produrre il tentativo d’una pur disperata redenzione. Nonostante alcune pedanti ripetizioni, annullate dalla linguistica superbamente ricercata, a leggerlo e rileggerlo con attenzione, e commisurandolo con cruda obiettività alla sua realtà storica, ci si capacita presto del capolavoro: assoluto. C.Matar
Una scrittura intricata, ricca, sfarzosa in cui perdersi e di cui godere. Satira feroce contro Mussolini e il ventennio fascista, colmo di rimandi alla psicanalisi e all'analisi delle masse.
Recensioni
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Vaso di miasmi repellenti e sulfurei guizzi, Eros e Priapo è stato fin dalla sua prima apparizione un oggetto urticante, tanto più che soltanto oggi possiamo dire di leggerlo nella sua interezza, per merito di un manoscritto autografo ritrovato nel 2010 nell’Archivio Liberati. Ci lasciamo così alle spalle la versione che finora era vulgata, quella frettolosamente montata da Garzanti nel 1967 – per sfruttare la fama eccezionale all’indomani del Pasticciaccio (1957) – e troviamo all’interno della nuova edizione, mirabilmente curata da Paola Italia e Giorgio Pinotti, altri “satelliti” della costellazione: lo «Schema del capitolo II», Il bugiardone (1946), Il libro delle Furie (versione assemblata nel 1955 per «Officina» di Pasolini e molto più fedele al disegno originario di quella garzantiana), I miti del somaro, Le genti, Le Marie Luise e la eziologia del loro patriottaggio verbale, Teatro patriottico anno XX (questi ultimi quattro documenti appartengono tutti al periodo settembre ’44-settembre ’45).
Libro di dolore, che intreccia il proprio destino con quello del «Gaddus» e del suo fascismo a lungo corteggiato – fin dal 1922 e dalle trasferte dell’ingegnere in Argentina – e poi rifiutato in epoca tarda (nonostante lo scrittore parlasse di un precoce rigetto). È tra il ‘44 e il ‘45 che Gadda, sfollato e perduto sotto il cielo bombardato di Firenze e diretto a Roma, avvia la stesura di questo feroce e “furioso” libello, iroso e misogino, crudele, ma anche lucidamente analitico. A testimonianza della materia incandescente che arde anzitutto nelle budella del cinquantenne Gadda c’è la «morulazione» del testo nei suoi “satelliti”, spesi di volta in volta per aggirare un sicuro rifiuto di pubblicazione (a causa dell’oscenità del linguaggio) o per raffreddare un oggetto troppo scottante. Come spesso capita nella vicenda compositiva dello scrittore milanese le redazioni sono molteplici, grappoli di possibilità che deflagrano da un archetipo, «gnommeri» testuali. Certamente uno dei meriti più evidenti dell’edizione adelphiana è l’immagine che si dà del cantiere gaddiano. Ovunque il lavoro di Gadda è di scritture e riscritture, ovunque è una gastronomia dell’interruzione, un’incessante mitosi di particelle linguistiche, semantiche, formali ed epistemologiche che impediscono ai suoi grandi progetti letterari di chiudersi. Ovunque domina una spinta verso l’informale.
Così, oggi più di ieri esplode il fuoco dell’invettiva anti-mussoliniana, quel vilipendio di cadavere sul corpo ancora caldo del «Maramaldo» impiccato, ma ancor più si staglia dal fondo una prospettiva di largo respiro. Adesso, Eros e Priapo rende conto di un «male» nazionale che «dev’essere noto e notificato», giacché «“La causale del delitto”, [...] segna il prevalere di un cupo e scempio Eros sui motivi di Logos», l’incantagione della folla innamorata del capo, precipitata in un vuoto di ragione e trascinata dalla «lubido» del «Predappiofesso» in una smania di esibizione selvaggia ed esiziale. «La esibizione [...] è l’atto fondamentale della psicosi narcissica», dice Gadda e in qualche modo siamo già nello «spettacolo» debordiano, siamo in una «ruina» che fa da abisso confortevole. Il virus mussoliniano del narcisismo ha contagiato la massa, conducendo il paese alla catastrofe: la ghenga del «Grinta, voglio dire il Batrace», ovvero il manipolo di ragazzotti «che sarebbero riusciti indocili perdigiorno a vivacchiar d’espedienti», ha creduto di poter fare una carriera politico-criminale acquisendo, come per una proprietà osmotica, il carisma del «capintesta» e ogni donna ha visto «in lui il genitale padrone, il verro che si sarebbe volturato (vautré) sul loro inguine».
Finalmente questa Versione originale restituisce filologicamente al lettore la virulenza di un linguaggio innervato di quelli che Contini chiamava «arcaismi differenziali» – termini nobili del fiorentino antico che furono scartati dal canone linguistico – declinati in un plurilinguismo parossistico; ma al tempo stesso, come notano i curatori, l’asse portante del testo slitta verso «un trattato di psicopatologia delle masse valido in ogni epoca». Ma dallo Stige di Eros e Priapo emergono anche altri spettri, fantasmi notturni di un rimosso visceralmente freudiano, quello della sua segreta e inconfessata omosessualità, per la quale le Marie Luise tanto vilipese, narcisisticamente innamorate del «lurido Poffarbacco», in fondo condividevano con Gadda la stessa fascinazione maschile verso il «Kuce». Da qui proviene l’imperdonabile astio anti-femminile del libello, dalla promessa tradita del fascismo, che avrebbe dovuto mettere ordine in un mondo sconquassato da urti psicologici ed epistemologici.
Oggi però la lettura di questa architettura incompleta trasmette anche un’inedita inquietudine: leggere le pagine sul riflesso narcisistico delle «genti», sul nucleo (o)scenico del meccanismo «narcissico», laddove una «anima sciocca ha bisogno di mostrarsi, di far sapere che è venuta al mondo», non può che far pensare al nostro presente ormai del tutto esposto, spettacolarizzato, «esibitivo». Un tempo di «follia autoerotica», d’innumerevoli voci in cerca di un uditorio, di piattaforme disposta a offrire uno spalto a voci e volti altrimenti minacciati dall’oblio. Un tempo controllato, algoritmico: di violenza rarefatta, soft e normalizzata ma non per questo meno lacerante. Un tempo di pericolosa seduzione.
Epoche differenti, quella del Ventennio e la nostra, ma sulle quali riluce la perturbante visione gaddiana. Una profezia dantesca, quasi, quella dell’anatomo-patologo che «oppone la lampada al viso del cadavero», ma che delinea caratteri di una fase «narcissico-puberale» tutt’altro che sorpassata, anzi, semmai «pragma» contemporaneo, regola del divenire; ma anche il divenire ormai non c’è più.
Recensione di Filippo Polenchi.
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