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Disuguaglianze ed equità in Europa
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Descrizione


Da quelle più macroscopiche e razziali che discriminano tra popoli, a quelle incardinate sulla diversa fruizione del territorio e della civiltà urbana, a quelle che sui luoghi di lavoro negano le pari opportunità, fino a quelle più sottili affidate alle scale di valori, di stili di vita che conduciamo, di simboli che attraversano i rapporti interpersonali e il vissuto quotidiano, il libro disegna un aggiornato atlante socio-culturale delle disuguaglianze sociali.
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Dettagli

1993
5 aprile 1993
518 p., Rilegato
9788842041580

Voce della critica

PACI, MASSIMO (A CURA DI), Le dimensioni della disuguaglianza. (Rapporto della Fondazione Cespe sulla disuguaglianza sociale in Italia

GALLINO, LUCIANO (A CURA DI), Disuguaglianze ed equità in Europa
recensione di Cella, G.P., L'Indice 1994, n. 8

Uguaglianza, disuguaglianza: pochi altri termini sono così "intrattabili" nelle scienze sociali. Innanzitutto per la loro politeticità, specie quando vengono riferiti a un criterio, che sia il reddito, il prestigio, le occasioni di mobilità, i titoli di studio. Il che avviene quasi sempre nella ricerca sociologica. Che siano parole politetiche ce lo ricorda Boudon in un capitolo del suo "L'arte di persuadere se stessi" (Rusconi, 1993) che andrebbe letto con profitto prima di misurarsi con i due lavori collettivi che stiamo qui presentando.
Cosa intende Boudon quando afferma che l'aggettivo "eguale" è politetico? "Intendo con questo che si tratta di un termine dello stesso tipo di 'grande' o 'ricco', cioè di una nozione di cui si può al massimo dare una definizione più o meno arbitraria. Se dà l'impressione di essere non politetico, è perché esso evoca l'accezione matematica del termine che è effettivamente univoca" (p. 341). Ma il termine uguaglianza usato nelle scienze sociali ha solo una relazione metaforica con il termine della matematica. L'intrattabilità dell'uguaglianza, quando si scende verso le politiche sociali, o si predispone una teoria sociale, deriva anche da una sua evidente capacità di autotrasformazione, o di scivolamento da un piano all'altro del discorso, politico o teorico. Pensiamo alle tre famose proposte dell'uguaglianza di ammissione, di opportunità, di risultati. Quanti perseguono con coerenza una politica si vedranno trascinati dalla prima alla seconda alla terza, con le possibili brusche ricadute derivanti dalle distorsioni delle politiche stesse, oltre che degli obiettivi dichiarati, o prescelti. Che senso ha ammettere un soggetto alla corsa, se le opportunità sono di fatto disuguali? E se le opportunità sono veramente uguali non fanno forse intravedere qualcosa di simile all'uguaglianza dei risultati? Una terza ragione di intrattabilità, invero non esclusiva del termine uguaglianza, attiene alla sua dimensione soggettiva, e anche cognitiva. Le reazioni alle disuguaglianze, ma anche la percezione e la lettura delle stesse, non sono determinate in modo oggettivo. Lo sappiamo anche da una vasta letteratura sui gruppi di riferimento o sugli squilibri di status, e cominciamo a rilevarlo nelle scienze sociali anche attraverso gli apporti delle discipline cognitive.
Questa premessa era necessaria per trasmettere un poco dell'imbarazzo che coglie un recensore alle prese con lavori di ricerca e riflessioni sui temi dell'uguaglianza, e delle disuguaglianze. Imbarazzo che si presenta anche questa volta di fronte a due rilevanti volumi collettivi, il primo, curato da Luciano Gallino, comprendente gli atti di un convegno organizzato nell'autunno del 1990 dall'Associazione italiana di sociologia, il secondo a cura di Massimo Paci e dedicato a un rapporto sulla disuguaglianza in Italia promosso dalla Fondazione Cespe. I volumi, presi singolarmente, deludono proprio su quelle premesse (politeticità, ambiguità e scivolamento delle politiche, soggettività) che sembrerebbero necessarie per affrontare in termini efficaci il discorso dell'uguaglianza nelle società contemporanee. Utilizzati assieme permettono tuttavia di compensare alcuni limiti. Il volume dedicato all'Europa mostra infatti i suoi lati migliori proprio su quel versante dei modelli di usanza e delle mediazioni simboliche della stessa che restano sacrificati o dati per scontati nel contributo del Cespe. D'altra parte, la puntigliosità nella ricostruzione di molte dimensioni dei sistemi di disuguaglianza che ritroviamo in quest'ultima opera compensa un poco l'indeterminatezza e anche le pretese di onnicomprensività della prima.
Entrambi i volumi, infine, almeno nelle introduzioni dei curatori, si pongono il problema del significato politico del discorso dell'uguaglianza, e del rilievo che le trasformazioni nei sistemi di disuguaglianza assumono per le dinamiche della rappresentanza. In modo implicito se lo pone Gallino nella sua breve introduzione, quando ricorda come "nel discorso pubblico, e nelle stesse scienze sociali, il dibattito sulla disuguaglianza ha subito, a partire dagli anni '80, un declino che non trova riscontro nella seconda metà del XX secolo". Ma questo richiamo non trova un grande ascolto nei saggi compresi nella raccolta.
In modo esplicito invece è Paci a porsi il problema, in riferimento alle difficoltà di presa, che proprio in questi giorni abbiamo verificato, del messaggio della sinistra: "la lotta contro la disuguaglianza, infatti, è stata sempre una componente forte dell'identità della Sinistra, sicché la comprensione dei 'nuovi termini della disuguaglianza sociale' oggi, costituisce anche un momento indispensabile nella ricostruzione di tale identità". Nelle pagine finali della sua lunga introduzione Paci avanza delle sollecitazioni opportune per la ricostruzione in Italia di una "cultura dell'equità", fondata a partire dai materiali di documentazione raccolti. I quali, tuttavia, risentono di quella sottovalutazione delle componenti soggettive e cognitive dei modelli di uguaglianza, e di equità, che attraversa tutto il volume.
Una diversità, piuttosto inattesa, fra i due lavori collettivi riguarda il peso attribuito alle disuguaglianze di ordine etnico, territoriale, regionale, ambientale. A esse sono dedicate la prima e la seconda parte del volume curato da Gallino, che segnala la drammatica presenza di "gruppi etnici che ambiscono a definirsi singolarmente come nazioni e nazioni tentate di lacerarsi in nuovi frammenti del proprio passato". Il rilievo di questi temi per la questione della rappresentanza politica è evidente, se si accetta l'osservazione teorica di Pizzorno sulla rappresentanza politica come fonte di definizione (o ridefinizione) dei confini. È così che in un breve ma denso saggio presente nell'ultima parte del volume (quella dedicata alla mediazione simbolica) Pizzorno stesso ci ricorda che, "sia concepita come di natura distributiva, o invece come di natura paritaria e riconoscitiva, l'uguaglianza non può concepirsi che come riferita a soggetti determinati inclusi entro confini determinati". Stranamente trascurato, o lasciato sullo sfondo, è quest'ambito di differenze nel volume della Fondazione Cespe. Certo il riferimento a un sistema nazionale ha in qualche modo orientato gli interventi verso le dimensioni più "verticali" delle disuguaglianze. Va inoltre considerato che la variabile territoriale è spesso presente nell'esposizione dei dati e nell'orientamento delle riflessioni. Tuttavia un'esplicita considerazione delle disuguaglianze (e dei connessi modelli di equità) di ordine territoriale avrebbe permesso una ricomposizione di materiali e informazioni che soffrono per un'eccessiva frammentazione.
Senza pretese di completezza, e con dimenticanze di cui spero non sia ritenuto colpevole, vedrò ora di fornire una rapida indicazione dei contenuti dei due volumi. La prima parte del volume curato da Gallino è dedicata alle disuguaglianze sociali e culturali nel quadro europeo, la seconda alle disuguaglianze territoriali. Apre questa sezione un lungo saggio di Max Haller che avrebbe dovuto costituire una sorta di mappa descrittiva e interpretativa dell'intero volume. Un compito non osservato, per tacere della traduzione a dir poco insoddisfacente, forse per la difficoltà del compito stesso, ma anche per non poche cadute nell'argomentazione. Rilievi simili si possono muovere al saggio di Franco Demarchi sulle disuguaglianze etniche e a quello di G. A. Marselli sulle disuguaglianze territoriali. Il primo, dotato di una ricca quanto inusabile bibliografia, cade talvolta in un evoluzionismo spenceriano, rapidamente smentito dall'evolversi stesso delle vicende europee. Il secondo, rigorosamente senza bibliografia, ci trasmette una tranquillizzante, e a-problematica, visione geografica piena di "continentalità" e di "marinità", dello spazio Europa. Molto più stimolanti, anche se disomogenei, sono i saggi successivi di Martinotti, Bagnasco, Strassoldo. In essi il tema della costruzione spaziale, ambientale delle disuguaglianze e della loro percezione inizia ad assumere contorni fondati dal punto di vista teorico e analitico. La parte terza è dedicata ai temi più tradizionali del discorso sociologico delle disuguaglianze: stratificazione e mobilità, lavoro, politiche sociali.
Nella quarta parte, dedicata ai modelli giuridici di uguaglianza e nella quinta, rivolta alle mediazioni simboliche, ritroviamo i contributi più stimolanti del volume. Dal saggio di De Giorgi che affronta con maestria le caratteristiche teoriche del discorso sull'uguaglianza (la sua origine come "principio relazionale che presuppone la diversità di ciò che si confronta"), a quello di Resta sul sorgere del "diritto fraterno" (di uguali), a quello di Belohradsky sull'irrompere della "dissimiglianza" prodotta dalla condizione postmoderna, a quello di Crespi sull'ordine simbolico della disuguaglianza, a quello incompiuto, come spesso accade, di Pizzorno sul concetto di uguaglianza di riferimento.
Più difficile è render conto in poche righe dell'insieme, vastissimo, dei contributi raccolti dalla Fondazione Cespe. In questo caso siamo tuttavia aiutati dall'efficace introduzione di Paci, centrata sullo sforzo di ricostruzione delle trasformazioni intervenute nel sistema delle disuguaglianze in Italia nel corso del passato decennio. L'immagine è quella di un "allungamento della scala sociale o di una sua maggiore articolazione verso l'alto". Intensi nel periodo sono stati i processi di chiusura sociale come quelli che hanno portato alla crescita delle libere professioni, o che non hanno cambiato i già vasti condizionamenti delle famiglie di origine nei processi di mobilità. Nella parte centrale del decennio, nella distribuzione primaria del reddito sensibile è stato lo spostamento a favore dei profitti. Per tutto il periodo è continuata la frammentazione del lavoro dipendente, favorita dai processi di deindustrializzazione e di crescita dei lavori comuni nei servizi. Tutto ciò, tuttavia, non induce a parlare del sorgere di un "nuovo proletariato post-industriale". I processi di esclusione sociale sono stati favoriti dall'universalismo puramente formale dell'offerta dei servizi sociali e sanitari pubblici che ha realizzato "processi distributivi alla rovescia". Un insieme di processi, conclude Paci, di fronte ai quali è possibile chiedersi "se non abbiamo largamente superato in Italia la soglia oltre la quale la disuguaglianza diventa un fattore di inefficienza del sistema economico nazionale".
L'insieme di contributi costituisce un repertorio prezioso sulle disuguaglianze in Italia, la cui utilizzazione è tuttavia non sempre agevole per la loro eccessiva frammentazione. Anche se vanno letteralmente scoperti nell'intrico delle collaborazioni, risultano efficaci contributi come quelli di Cobalti sulla mobilità (con l'immagine della stratificazione sociale a "trottola"), di Scamuzzi sui consumi, di Biagioli e Bordogna sui differenziali salariali, di Bellina sulle sperequazioni normative del sistema pensionistico italiano.
Qualcosa alla fine va detto sulla funzione e sul destino delle opere collettive nelle scienze sociali, e più in generale nelle scienze dell'uomo. Le difficoltà che incontra il recensore sono certo poca cosa rispetto a quelle che ha incontrato, prima, il curatore e che incontrerà, dopo, il lettore. Ma non basta. Qualcosa va detto anche sull'atteggiamento degli editori verso le opere collettive. Alcuni, come in questo caso Il Mulino, nutrono un'avversione incontrollata verso questo tipo di opere, con la conseguenza che l'origine collettiva va il più possibile nascosta, mimetizzata. I nomi dei differenti autori non compaiono in nessuna delle pagine di copertina, e nemmeno nel frontespizio, talvolta neppure nell'indice (come nel caso del volume curato da Paci); compaiono solo all'interno del volume all'inizio dei diversi contributi, ma anche qui con rilievo minore, magari con note a piè di pagina. Veramente la casa editrice bolognese pensa che i lettori, pochi, delle scienze sociali siano così ingenui o immaturi? Possiamo contribuire tutti a farle cambiare opinione, anche per i meriti che la casa continua a possedere nella promozione, non facile, di queste discipline?

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