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Nel 1896 Julius von Schlosser affidava ai tipi di Carl Graeser il suo Quellenbuch, il Repertorio di fonti per la storia dell'arte del medioevo occidentale, come recita il sottotitolo dell'edizione italiana del 1992. La collana dedicata alle fonti voluta da Rudolf von Eitelberg, in cui sono per la prima volta raccolte e valorizzate quelle per la storia dell'arte del medioevo, costituisce un precedente inaggirabile per La letteratura artistica del 1924. In questa, alla raccolta ausiliaria delle testimonianze Schlosser sostituisce una nuova "scienza delle fonti", intendendo "le fonti scritte secondarie, indirette; soprattutto quindi, nel senso storico, le testimonianze letterarie che si riferiscono in senso teoretico all'arte, secondo il lato storico, estetico o tecnico". Da allora questa disciplina avrebbe conosciuto molte denominazioni, a seconda dei presupposti e della declinazione per i quali di volta in volta la si è intesa: ovverosia, oltre che "storiografia artistica", anche "critica d'arte" e "storia della critica d'arte", oppure "artwriting" e "storia della storia dell'arte".
Donata Levi ne valorizza le singole specificità nella limpida e utile introduzione, risolvendosi, di fronte alla difficoltà di adottare una definizione, a coniarne la nuova, solo apparentemente più accostante, di "discorso sull'arte": "In virtù della sua elasticità e indeterminatezza (
) se non si vuol imporre un ordine schematico, ma dar ragione di una gamma varia, ricca, suggestiva di testimonianze verbali". Indaga dunque "i modi in cui questo discorso si è venuto articolando, attraverso quali canali e con quali modalità e, infine, come si è guadagnato un qualche, seppur labile, statuto disciplinare".
Specificatamente per il medioevo, alle difficoltà che sono in generale proprie del "discorso sull'arte", si aggiungono quelle di un'epoca che non conobbe un'istituzionalizzazione del dibattito e per la quale gli elementi si rintracciano in una sorta di storiografia nascosta, che valorizza la necessità programmatica di contestualizzazione filologica delle singole testimonianze. L'autrice se ne fa singolarmente carico e ci conduce per il lungo succedersi dei secoli tra la fine del mondo antico e il nuovo sistema delle arti che si stabilizza nell'Italia del Quattrocento. Dai tratti della biblioteca antica, di cui i soli Vitruvio e Plinio ci trasmettono un'immagine ricca e specifica, il "discorso" si concentra prima sulla resistenza alle immagini delle prime comunità cristiane e poi sui fondamenti del loro uso religioso; validi per tutto il medioevo, passando per la "forte tendenza all'intellettualizzazione della forma sensibile che porta a dar valore a ogni cosa sensibile solo in quanto similitudine del sovrasensibile". Altresì, l'intera vicenda narrata nel testo potrebbe essere ripercorsa attraverso la dialettica interazione fra immagini e testi, a partire dalla preminenza di questi ultimi e senza mai dimenticare i timori della loro idolatria.
Per Gregorio Magno le immagini avevano valore referenziale e segnico e assumevano un'esplicita finalità didascalica, come scriverà a Sereno di Marsiglia: "Ciò che la scrittura accorda a chi sa leggere, la pittura mostra agli incapaci che guardano". Nei Libri carolini, elaborati presso la corte di Carlo Magno per interpretare le disposizioni del concilio di Nicea del 787, maggiore è la cautela affinché la pratica delle immagini non si offra al culto; come era avvenuto e si combatteva in Oriente: solo la scrittura, e non l'immagine, è il luogo in cui è espressa la Verità e il mezzo di cui il fedele può disporre per raggiungere la salvezza. Diversamente da Gregorio, le immagini non possono far conoscere i fatti ai fedeli, ma i fedeli, che già li conoscono per altre vie, se ne possono avvantaggiare per riportarli alla memoria.
Tale sarebbe stato il ruolo delle immagini per tutti i secoli centrali del medioevo, fino a che il concorso di diversi e difformi fenomeni non avesse condotto al suo superamento. La gran parte del "discorso" è perciò dedicata alle tracce scritte in cui questo prese forma, dalle cronache ai precetti monastici, dalle letteratura periegetica all'enciclopedismo e all'allegorismo della letteratura liturgica. Ma ancor più alle opere e ai protagonisti che per vie diverse determinarono quel lungo processo di superamento: in altre parole, alle testimonianze di come le arti conquistarono uno statuto autonomo e la possibilità di studiare e rappresentare indipendentemente la realtà e i suoi significati.
Nel XII secolo, se il De diversis artibus di Teofilo è testimone della cultura monastica, con un'attenzione e conoscenza per la tecnica non sempre riscontrate nella tradizione dei ricettari medievali, Magister Gregorius, descrivendo nella sua Narrazione delle meraviglie della città di Roma l'esperienza estetica delle statue antiche palpitanti di vita, denota la fiducia che si andava riponendo nell'imitazione dell'arte classica per la rappresentazione naturalistica dell'essere umano. Il coevo recupero, attraverso la cultura araba, di Aristotele, che teorizzava l'imitazione della natura non per come è ma per come dovrebbe essere, implicò l'idea che le opere d'arte fossero uno strumento di conoscenza e segnò una grande svolta che sarebbe stata codificata nel sistema delle arti di san Tommaso.
È nel corso del XIII secolo che la figuratività acquista il valore conoscitivo che nei testi e con le opere gli attribuiscono Dante e Giotto. Già nella Vita Nova l'amore e la sua rappresentazione si manifestano attraverso la visione, ma soprattutto nella Commedia Dante creerà exempla, si soffermerà sulle reazioni suscitate dalle opere, considererà qualitativamente e cronologicamente gli artisti: nella celebre terziana di Purgatorio XI, 94-96: "Credette Cimabue nella pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura". Giotto e la sua pittura "intellettuale" ne sono dunque i protagonisti, godendo di una fortuna immediata, rimarchevole e capace di descrivere il nuovo status che gli artisti si avviavano a raggiungere. Boccaccio stesso nel commento alla Commedia ricorderà, in riferimento a Giotto, che "secondo che ne bastano le forse dello 'ngegno, c'ingegnamo nelle cose, le quali il naturale esemplo ricevono, fare ogni cosa simile alla natura". L'arte aveva ormai guadagnato il riconoscimento di una creazione autonoma, non solo per i suoi protagonisti, ma anche per chi, letterato di vaglia, ne parlava. Siamo ormai di fronte a quell'"arte nuova" fondata sull'esercizio dell'ingegno, che sarà evocata da Ghiberti nei suoi Commentari e sistematizzata da Leon Battista Alberti nel suo Della pittura.
Di tutto questo e di molto altro ci racconta questo Discorso sull'arte, capace di far lievitare le nozioni specifiche nella consapevolezza dell'importanza della formazione della conoscenza, nella prospettiva critica e/o operativa, ma anche in quella storica. Per quest'ultima, è merito ulteriore del volume sottolineare l'imprescindibilità della ricerca non solo sulla letteratura ma anche sul lessico tecnico, che è l'unico affaccio su quella parte del "discorso" che non potrà mai essere studiato sui testi, ma ormai nemmeno più ignorato, per indagare "il passaggio diretto dal valore visivo a quello intellettuale" del produrre e fruire "opere d'arte": la tradizione orale. Alessio Monciatti
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