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Anno edizione: 2004
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Indice
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In questo libro è tutto talmente vero, folle, crudo, disperato... che a volte si capisce tutto, a volte niente. Meraviglioso.
Mi sono innamorata di Sylvia Plath leggendo questo libro. Ci si addentra nei pensieri e nella vita di una donna straordinariamente intelligente e sensibile, con una capacità notevole a descrivere il dolore, ma anche le gioie, così come le più intime riflessioni sulla vita e se stessi, senza mai cadere nel banale. é un libro che a distanza di più di un anno continuo a tenere sul comodino per trovare conforto in alcune pagine quando ne sento il bisogno.
Una lettura molto interessante sia per chi conosce già questa autrice, sia per chi vi si approccia per la prima volta.
Recensioni
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recensioni di Bargone, M. L'Indice del 2000, n. 03
Lasciano inquieti e perplessi i Diari di Sylvia Plath (1932-63). Perplessi in primo luogo per il ritratto incompleto che se ne ricava: molte parti sono state tagliate perché ritenute piene di malignità, troppo intime o di scarso rilievo. Anche Ted Hughes nella prefazione ammette di aver distrutto la terza parte del diario della moglie perché non voleva che i figli lo leggessero. Mentre il secondo taccuino pare sia andato perduto. Al lettore giunge soltanto un terzo dunque dell'autobiografia originale, e la prima impressione è che a mancare siano soprattutto le parti più scabrose: scabrose non tanto (ma anche) in senso erotico, quanto psicologico. La violenza mentale di Sylvia Plath, della sua introspezione peregrina e assassina, è forse più oscena della sua vita sessuale e amorosa; così come il suo amoreggiare lucido e sarcastico con la follia e la morte scandalizza più del suo eccesso di emancipazione femminile.
Tuttavia quanto resta basta a inquietare e a sorprendere per la puntualità morbosa di questo raccontarsi: più che un vero diario pare la sceneggiatura di un film scritto per lei da un ammiratore ossessionato e ossessivo, che la spia e la riprende in ogni attimo, in ogni umore, pericolosamente al confine tra iper-lucidità e delirio, in totale empatia con la sua vittima. Prorompe da queste pagine, "rimbalzando dall'autovenerazione all'autoripugnanza", una necessità fisica, imperante, di scandagliare, sezionare e ricomporre ogni giorno vissuto nella dimensione della scrittura ("facendo e disfacendo se stessa", scrive Hughes): "la mia felicità scaturisce dall'essermi separata da una parte della mia vita, una parte di dolore e bellezza, per trasformarla in parole scritte a macchina su un foglio". C'è in Sylvia una potente, debordante e insieme implosiva percezione di sé. Da questo sentire e sentirsi così pregnante scaturisce un'energia che continuamente crea e continuamente distrugge; da questo pulsare sgomento dell'io origina il bisogno di fermare tutto, di interrompere il flusso del tempo, perché è insopportabile sapere di essere soltanto "un'altra goccia nel mare della materia": "mi sento già soffocare sotto il peso dei secoli. Un centinaio di anni fa una ragazza ha vissuto come vivo io. Poi è morta. Io sono il presente, ma so che anch'io me ne andrò. (...) E io non voglio morire". Sylvia era una ragazzina quando scrisse queste frasi e poco più che una ragazza quando a trent'anni si tolse la vita. La scrittura l'aveva sempre accompagnata, e i Diari sono testimoni di un percorso che vede intrecciate in modo simbiotico vita e letteratura ("io scrivo e vivo, vivo e scrivo"); ma più che un processo in divenire di crescita e arricchimento queste pagine danno la sensazione netta e inquietante di un processo in perdita, un'emorragia ininterrotta e inguaribile dell'anima che stilla parole come gocce di sangue puro, concentrato. "La scrittura resta: va per il mondo", scrive Sylvia, quasi si liberasse di pezzi di sé, per poi rincorrerli a momenti, nel tentativo di ricomporli e ricomporsi. Per lasciarsi consolare poi dall'illusione speranzosa che una qualche tregua sia prossima, e la sofferenza si plachi: "Oh c'è qualcosa che mi sta aspettando. Forse un giorno avrò una rivelazione improvvisa e potrò vedere l'altra faccia di questo enorme, grottesco scherzo. E allora riderò. E saprò cos'è la vita". Ma sono questi cali di tensione assai rari: frenesia, desiderio, paura, ambizione logorante caratterizzano per lo più la scrittura. E li sovrasta un senso continuo di frustrazione amara, onnipervasiva: "Frustrata? Sì. Perché non posso essere Dio - o la donna-uomo universale - o una qualsiasi cosa che conti", perché "quando il proprio paradiso e il proprio inferno sono ridotti in pochi pezzi di carta ben dattiloscritta e i redattori sono così cortesi da rifiutarli si tende per magia a identificare i redattori con i ministri di Dio. Non c'è scampo".
Non è necessario essere cultori della poesia di Sylvia Plath per farsi coinvolgere dall'intensità di ogni singola pagina dei Diari: sono notevoli come opera a sé, documento non solo di una vita da romanzo, ma anche di uno spaccato dell'ambiente artistico-letterario anglo-americano degli anni cinquanta, dei suoi protagonisti, delle difficoltà e della competizione che lo caratterizzavano. Una lettura densa dunque, tanto densa da divenire a tratti ansiogena. Sconsigliabile, perciò, a chi al rigore di una quotidiana auto-analisi preferisce un po' di sana, leggera inconsapevolezza e cerca di godersi certi momenti senza ricordarsi per forza che "il presente è l'eternità e l'eternità è sempre in movimento, scorre, si dissolve. Questo attimo è vita. E quando passa muore. Ma non si può ricominciare a ogni nuovo attimo, ci si deve basare su quelli già morti".
«Ho paura di affrontare me stessa. Stanotte ho tentato di farlo. Mi auguro di cuore che ci sia qualche essere assoluto, qualcuno su cui contare affinché mi valuti e mi dica la verità.»
Nel diario di una poetessa, di una scrittrice, di una donna giovane e bella che a soli trent'anni decide di suicidarsi cerchiamo, quasi con una certa morbosità, il perché di quella tragedia. Perché? Perché la disperazione che porta alla morte? Perché il nulla in una vita così piena, così ricca, con due bambini piccoli da crescere, una vita di relazioni apparentemente normale, un successo professionale ormai vicino? Eppure, leggendo una dopo l'altra le pagine di questo Diario, che vede l'autrice prima ragazzina, poi sempre più adulta, moglie e madre, la risposta appare evidente, ed è già compresa nella domanda iniziale che Sylvia si pone: "Se soltanto sapessi cosa chiedere alla vita".
Una cupa angoscia, l'impossibilità a trovare una identità, la sofferenza profonda e una difficoltà quasi fisica ad instaurare rapporti autentici: un male di vivere insomma che appare già evidente fin dalle prime pagine.
"Voglio amare qualcuno perché voglio essere amata": ed è proprio la paura di essere scoperta in questa incapacità all'amore che le crea devastanti paure, depressioni, sconfinamenti quasi nella pazzia.
"Resta il terrore di non avere genitori, né persone grandi e mature, pronte a consigliarmi e amarmi a questo mondo": ma ancora di più la paura della solitudine, una così profonda sensazione di perdita, di lutto che semplificatoriamente si potrebbe collegare (lei stessa compie a un tratto questa operazione) all'abbandono del padre. E così l'odio/amore per la madre, la paura di quella simbiosi che cerca, e che le toglie ogni possibilità di autonomia, (simbiosi che riprodurrà nel rapporto col marito), il "desiderio di essere manipolata" per non affrontare la disperazione che la domina, sono tutte chiavi di lettura della sua esistenza. Frequente è nel Diario l'accenno al suo essere donna, bella, desiderata, e al rifiuto per quella sensualità che vede trasparire dal suo corpo che pure vuole perfetto, più per gusto estetico che per volontà di seduzione. La passione, il desiderio che pure sono componenti importanti di sé, la sgomentano e l'attraggono nello stesso tempo, in fondo permane sempre un invidia nei confronti del maschio e una difficile accettazione della sua identità femminile. Eppure, fin da giovanissima, la sofferenza amorosa era stata per lei una costante: sicurezza di esistere, di sentire, di perdersi in un altro per ritrovarsi. Un episodio adolescenziale, una violenza a cui era sfuggita e che non aveva potuto raccontare alla madre, troppo distratta in quel momento per prestare attenzione all'aspetto sconvolto della figlia, era rimasto impresso in lei come simbolo di un furto, di un imbroglio giocato alla sua ingenuità.
Il rapporto col lavoro, il lavoro manuale (piantare fragole nei campi o servire in un bar) aveva avuto nella sua prima giovinezza un ruolo positivo. La stanchezza porta ad una forma di positivo abbandono, di dimenticanza necessaria, di semplicità interiore: tutto ciò non avviene invece quando il lavoro è quello letterario, quello della creazione artistica.
Il rapporto con la scrittura, la sensazione di avere grandi cose da scrivere, l'incapacità di tradurle nella pagina scritta, perché "fa male non essere perfetti", la ricerca di modalità di comunicazione letteraria che le permettano di essere accolta e pubblicata, la conduce alla costruzione di maschere, sia nella scrittura che nella vita, maschere di cui non si sa liberare nemmeno con l'elettroshock e che finiranno col soffocarla. Ted Hughes, nella prefazione, dichiara che solo pochi versi detti da lei in un momento di abbandono, poco prima del suicidio, gli avevano rivelato la verità di quella donna a cui era stato perennemente vicino per sei anni: ben forti quindi dovevano essere le maschere che coprivano il suo essere.
Quando, cadute le immagini di sé che aveva dolorosamente offerto al mondo, le resta solo la verità di una vita inappagata, di un bisogno di amore insoddisfatto, di una identità irrisolta e perennemente lacerata, l'unica via d'uscita resta la morte.
A cura di Wuz.it
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